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Transnational politics.

Attività politiche transnazionali degli immigrati peruviani,

polacchi e rumeni nei territori di Roma e Torino.

Team di ricerca

Ricerca empirica: Francesco Tarantino (caso: Perú)

Giordano Altarozzi (caso: Romania)

Ewa Grzedzinska (caso: Polonia)

Contributo alla ricerca empirica: Elena Postelnicu (caso: Romania)

Supervisione scientifica e

coordinamento: Guido Tintori

Rapporto finale sulla ricerca

Guido Tintori

Contesto teorico

Nel campo degli studi migratori, dalla sua prima formulazione da parte delle antropologhe Glick Schiller, Basch and Blanc-Szanton (1992), il paradigma transnazionale si è progressivamente affermato come strumento analitico in grado di interpretare gli impatti che la globalizzazione e le migrazioni internazionali determinano sulle società contemporanee. L’attenzione sulle attività e le pratiche transnazionali dei migranti si è così estesa dagli ambiti culturali, sociali, economici, fino a includere anche la dimensione politica (Castles e Miller 2003: 255; Vertovec 2004). Esistono visioni differenti di ciò che significa transnazionalismo politico. Dopo i primi pioneristici tentativi di concettualizzare il fenomeno (Stack 1981; Sheffer 1986), sono state proposte numerose definizioni che si differenziano per una maggiore enfasi posta sul ruolo degli stati di provenienza (Basch, Glick Schiller, e Szanton-Blanc 1994; Itzigsohn 2000) o degli stati di accoglienza (Martiniello and Statham 1999; Faist 2000; Koopmans and Statham 2000), come fattore principale di mobilitazione.

Una prospettiva ancora differente è quella che osserva le pratiche politiche transnazionali come un fenomeno che ha luogo contemporaneamente a livelli multipli – locale, nazionale, internazionale –, dando vita a una interazione triangolare tra migranti, stati di partenza e stati di insediamento (Smith 1994). Secondo tale approccio, questa interazione triangolare è meglio compresa, se ci si concentra sui migranti stessi, come principale fattore politico di mobilitazione, adottando cioè la prospettiva “dal basso” (Smith e Guarnizo 1998). Muovendo da tale approccio, Eva Østergaard-Nielsen (2003a: 762-63; cfr anche Smith 1998; Martiniello e Lafleur 2008: 651-54) ha proposto una categorizzazione sistematica delle pratiche politiche transnazionali dei migranti. Østergaard-Nielsen indica tre modalità principali di attività politica transnazionale: a) per la promozione dei propri diritti come immigrati (immigrant politics), quando le attività sono intraprese essenzialmente nel paese di insediamento e mirate a un avanzamento dello status sociale, politico o economico o contro forme di discriminazione – l’intervento delle autorità del paese di origine a sostegno di tali iniziative è condizione necessaria affinché si possano definire transnazionali; b) verso lo stato di origine (homeland politics), quando le comunità immigrate si mobilitano nello stato di insediamento essenzialmente per istanze che riguardano la loro nazione di provenienza; c) translocali (translocal politics), quando e attività di una comunità immigrata di una determinata area di insediamento sono incentrate su istanze specifiche di una regione particolare, generalmente quella di provenienza, dello stato di partenza – spesso tali attività prevedono il coinvolgimento delle istituzioni locali, senza passare per gli attori politici nazionali.

La nostra ricerca ha adottato l’interpretazione proposta da Østergaard-Nielsen, integrandola con tre elementi ulteriori. In primo luogo, pur essendo consapevoli di una produzione cospicua di lavori che teorizzano il declino del modello di stato-nazione di fronte all’azione congiunta di globalizzazione e mobilità internazionali, e riconoscendo a tali analisi alcuni elementi di fondatezza (Strange 1996; Sassen 1996; Vertovec e Cohen 2002), nella nostra indagine siamo partiti dalla prospettiva cosiddetta “neo-istituzionalista” (March and Olsen 1984; Hall and Taylor 1996), privilegiando le interpretazioni fornite da più recenti studi sul ruolo ancora decisivo che gli stati-nazione, soprattutto di provenienza, sembrerebbero mantenere nell’influenzare forme, intensità e direzione delle attività politiche transnazionali dei migranti. In particolare, gli stati – di insediamento e di provenienza – intervengono a connotare i migranti come soggetti politici transnazionali, attraverso le loro politiche di cittadinanza, di controllo, di integrazione, attraverso le loro political opportunity structures, le leggi elettorali. I migranti, inoltre, sono da sempre destinatari di azioni di stampo nazionalistico e protagonisti di processi di nation-building (Bauböck 2003: 708-719; Østergaard-Nielsen 2003b; Choate 2008).

In secondo luogo, sulla scorta degli studi di Joppke e Morawska (2003), abbiamo inteso indagare se la presenza di attività politiche transnazionali tra i migranti comporti un minore o maggiore grado di integrazione nella società di insediamento, se la mobilitazione politica transnazionale favorisca l’assimilazione delle prime generazioni e/o dei loro figli, se i processi di integrazione politica e mobilitazione transnazionale siano processi coesistenti o meno.

Terzo, abbiamo ritenuto essenziale utilizzare una decisa prospettiva storica nell’analisi dei tre casi selezionati. È noto che l’utilizzo del termine transnazionale per descrivere le connessioni – economiche, culturali, sociali e politiche – tra i contesti di provenienza e quelli di arrivo, che sorgevano attorno alla presenza dei migranti, risale perlomeno all’inizio del secolo scorso (Bourne 1916) ed è ormai acquisito che pratiche transnazionali, anche in ambito politico, abbiano caratterizzato i fenomeni migratori anche in un passato relativamente remoto (Foner 2005, 1997; Gerstle e Mollenkopf 2001; Gabaccia 2003; Smith 2003; Martiniello e Lafleur 2008). Alla luce di entrambe queste considerazioni, l’adozione di una prospettiva storica nell’analisi ci è sembrata necessaria, per una migliore comprensione del ruolo che le istituzioni coinvolte ricoprono nell’influenzare eventuali attività politiche transnazionali dei migranti e, rovesciando il punto di osservazione, per evidenziare possibili path dependencies nelle interazioni tra gli stati e i migranti considerati.

Nel contesto teorico descritto, il progetto si è dunque posto l’obiettivo di condurre un’indagine sistematica del comportamento e delle attività politiche transnazionali di tre gruppi immigrati – peruviani, polacchi e rumeni – in due ambiti locali – i territori comunali di Roma e Torino. La durata del programma dei lavori prevedeva di distribuirsi su dodici mesi, per l’impostazione e il completamento della ricerca a iniziare dal febbraio 2008, a cui si aggiungeranno i prossimi tre mesi per l’organizzazione e il perfezionamento della disseminazione dei risultati.

Le tre comunità immigrate sono state selezionate secondo ragioni di ordine quantitativo e qualitativo, che le rendono casi particolarmente rappresentativi. Come si avrà modo di leggere in maniera più dettagliata nel capitolo I, di cui è autore Francesco Tarantino, l’immigrazione peruviana è presente in misura consistente in entrambi i territori comunali ed è caratterizzata da un forte livello di urbanizzazione. Si tratta di un’immigrazione non recente, ma che ha conosciuto un’espansione costante nel tempo. Presenta la caratteristica di un’alta propensione ad attivarsi politicamente verso il paese di origine. Un fattore di mobilitazione determinante è l’obbligatorietà del voto per tutti i cittadini peruviani, anche per i residenti all’estero, pena una sanzione pecuniaria di 40 dollari americani – obbligatorietà che, ci informa Tarantino, è stata rimossa di recente. Tuttavia, un livello apprezzabile di attivazione si può constatare anche verso la dimensione pubblica locale, attraverso molteplici forme di associazionismo e la partecipazione a forme di rappresentanza che superano l’identità nazionale per assumerne una dai caratteri “panetnici” (più genericamente “latinoamericani”).

L’immigrazione romena in Italia è relativamente recente, ma al primo posto per numero di residenti, secondo le ultime statistiche ufficiali. Come evidenzia l’autore della ricerca sul caso della comunità romena, Giordano Altarozzi, nel corso del capitolo II, è questo un gruppo che presenta, negli ultimi anni, il più alto ritmo di crescita nelle presenze. I romeni hanno finora manifestato una discreta propensione a comparire nell’arena pubblica italiana, principalmente attraverso iniziative di carattere culturale e associativo, spesso promosse su iniziativa di o in collaborazione con le autorità consolari della madrepatria, e non senza un certo coinvolgimento delle amministrazioni locali italiane. Aldilà dei motivi di ordine quantitativo, quello romeno è al momento il gruppo immigrato su cui si incentrano maggiormente le attenzioni del dibattito pubblico italiano, specialmente in conseguenza di episodi di cronaca nera e criminosi, che hanno visto protagonisti esponenti di tale comunità. L’esposizione mediatica, il coinvolgimento delle istituzioni italiane e romene, con il trasferimento del dibattito sulla “integrabilità” dei romeni nella società italiana da una dimensione politica interna a livello di relazioni internazionali, fanno sì che sia questo uno studio di caso particolarmente significativo per gli obiettivi che il progetto si pone. Due elementi ulteriori, poi, contribuiscono a rafforzare l’interesse verso lo studio degli immigrati romeni: 1) è loro attribuito il diritto di votare all’estero e, come illustra Altarozzi nel suo capitolo, nell’autunno 2008 si sono tenute le elezioni generali; 2) è interessante verificare se, per una sorta di retaggio storico che risale alla vita sotto il regime di Ceausescu, i romeni nutrano scarsi livelli di fiducia nelle relazioni con le istituzioni nazionali e nella politica in senso lato.

L’immigrazione polacca non è numericamente tra le più significative sul territorio nazionale, ma lo è nella provincia di Roma, come emerge dal capitolo III, a opera di Ewa Grzedzinska. Verso la capitale italiana, infatti, si sono concentrati i flussi a partire dalla caduta del Muro, alla fine degli anni ’80. Si tratta di una collettività radicata anche a Torino, seppure numericamente poco significativa, per una consuetudine storica di rapporti che l’associazionismo polacco è stato in grado di stabilire nell’ambito cittadino. In entrambi i territori, la comunità polacca è nutrita da flussi continui, anche se non ingenti, ma sufficienti a mantenere attive le interazioni con la madrepatria. In apparenza, non sembra oggi presentare propensioni ad attivarsi sulla scena pubblica italiana, perlomeno non con la stessa visibilità e rispondenza mediatica che era riuscita ad assicurarsi nel periodo del pontificato di Karol Woityla e delle battaglie sindacali e civili di Solidarnosc. Tuttavia, proprio la presenza storica di interazioni politiche tra comunità polacca e istituzioni italiane, grazie ai canali attivati da Solidarnosc e quelli, per la verità mai interrotti, con gerarchie, istituzioni e associazioni cattoliche rende il caso particolarmente degno di essere analizzato. La scelta degli immigrati polacchi, infine, trova una ragione ulteriore nella cornice comparativa del progetto. L’esistenza di una letteratura sul transnazionalismo politico delle comunità polacche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania (cfr. Babiński 1977, 1986, 1988; Friszke 1994, 1995, 1999; Habielski 1991, 1999; Kołodziej 1998; Lenczarowicz 1996; Misiak 1991; Paleczny 1989) potrà consentire, nella fase di disseminazione dei risultati, di valutare similitudini e differenze tra quei casi e quello della collettività polacca in Italia. Non solo, sarà possibile altresì comprendere se eventuali differenze siano da imputare allo stadio in cui si trovano i diversi processi migratori oppure ai diversi sistemi politici dei paesi di insediamento.

Un aspetto che è importante sottolineare è che immigrati polacchi e romeni hanno visto modificarsi il proprio status giuridico da immigrati residenti non comunitari a residenti stranieri comunitari, dopo l’ingresso nell’Unione Europea dei loro paesi, rispettivamente nel 2004 e 2007. Tale cambiamento giuridico porta con sé anche l’acquisizione dei diritti politici pieni – di elezione attiva e passiva – per le elezioni locali ed europee presso il comune di residenza. Si è quindi cercato di valutare, adottando una prospettiva storica, se l’accesso alla condizione di cittadino comunitario abbia generato delle variazioni nei comportamenti e nelle attività politiche dei due gruppi considerati.

Implementazione e metodologia

Il nostro lavoro, sia dal punto di vista dei contenuti, sia dal punto di vista metodologico, presenta i tratti di uno studio pilota nel panorama degli studi italiani sui gruppi immigrati, i quali sono stati finora studiati come attori transnazionali in ambito culturale, sociale ed economico, ma non in ambito politico, soprattutto adottando una prospettiva decisamente istituzionale.

Trattandosi di un ricerca “multi-situata”, come amano definirla gli antropologi, o più semplicemente con periodi di lavoro in due contesti urbani italiani e tre nazioni estere, portati a termine da ricercatori residenti in aree distanti dalla sede di FIERI, il coordinamento del team è avvenuto esclusivamente attraverso un popolare software di chiamate/videoconferenze su internet. Per i primi sei mesi con cadenza bisettimanale, successivamente con cadenza mensile o legata alle diverse fasi di lavoro, hanno avuto modo attraverso tale modalità le attività di networking, formazione dei ricercatori, definizione dettagliata del programma di ricerca, formulazione del questionario utilizzato per le interviste al campione di immigrati, analisi e discussione dei risultati intermedi, definizione delle linee guida per la compilazione dei rapporti sulla ricerca empirica, correzione e discussione dei capitoli. Tale modalità di lavoro ha consentito di abbattere sensibilmente – se non azzerare – i costi del networking e, nel complesso, ha funzionato in maniera soddisfacente.

Le principali questioni che il progetto di ricerca si prefiggeva di analizzare, in chiave comparata, erano:

a) se le politiche di emigrazione e leggi sulla cittadinanza, gli attori politici formali e informali dei paesi di origine dei gruppi immigrati giochino un ruolo determinante nell’influenzare le attività politiche transnazionali delle loro diaspore, in che misura e in che direzione;

b) se esistano attività politiche transnazionali da parte dei soggetti considerati, quali forme assumano, che intensità presentino, su quali istanze si concentrino, quali conseguenze determinino, se siano prevalentemente dirette verso la madrepatria, l’ambito politico locale di residenza o entrambi i luoghi;

c) se la peculiarità del sistema politico italiano, la sua organizzazione e modalità di funzionamento, unitamente alle politiche di integrazione attuate a livello nazionale e locale incoraggino o scoraggino l’insorgere di un transnazionalismo politico tra i gruppi immigrati;

d) se la presenza di attività politiche transnazionali agevoli o ostacoli l’integrazione – in primo luogo politica, ma non solo – dei gruppi immigrati considerati nelle società di insediamento.

Per cercare di rispondere al maggior numero possibile di tali quesiti, si è stabilito di procedere secondo un metodo di lavoro comune a tutti e tre i casi considerati, a stadi di analisi successivi.

Il primo passo ha avuto come obiettivo quello di delineare in dettaglio la legislazione dei paesi di partenza dei tre gruppi migranti a livello statale e sub-statale. I ricercatori hanno effettuato una rassegna dei principali provvedimenti legislativi riguardanti la condizione giuridica, politica, economica e sociale dei nazionali residenti all’estero (legislazione riguardante la cittadinanza degli emigrati, il voto all’estero, o altre forme di partecipazione politica a distanza, normativa sull’associazionismo, sulle rimesse, sui programmi di cosviluppo, di rientro); una raccolta dei dibattiti parlamentari e pubblici relativi ai principali provvedimenti adottati verso gli espatriati; un monitoraggio di eventuali progetti di riforma della legislazione corrente.

Tale lavoro ha contemplato un livello ragionevole di prospettiva storica, coerente con le singole situazioni nazionali considerate, andando tuttavia a comprendere eventuali riforme o evoluzioni della normativa perlomeno degli ultimi 20-25 anni. In tale fase, si è cercato anche di tracciare lo schema delle competenze tra le varie istituzioni nella gestione del voto all’estero e delle altre forme di partecipazione politica a distanza (es. quali ministeri sono competenti? Sono competenze “esclusive” o “ concorrenti”? Esiste un ministero specifico per le questioni degli emigrati?). Nello studio sul campo delle istituzioni e del loro ruolo, sono stati inclusi anche i partiti politici e i sindacati, sia nel paese di destinazione sia nel paese di partenza, ed è stato chiesto ai ricercatori di valutare il loro livello di attenzione nei confronti dei migranti come attori politici.

Il secondo stadio della ricerca è stato il rilevamento quantitativo dei livelli di presenza e rappresentanza dei tre gruppi immigrati nel panorama politico istituzionale nelle aree di Roma e Torino, considerando anche il livello politico informale. Si è cercato di restituire un profilo quantitativo delle tre comunità residenti in Italia e delle relative associazioni. Per il primo aspetto si sono utilizzate sia fonti italiane (Istat, ministero dell’Interno) sia fonti ufficiali dei paesi d’origine, nell’intento di evidenziare eventuali discrepanze. Anche per il secondo, i tre ricercatori hanno provveduto a compilare una mappatura delle principali associazioni dei tre gruppi nazionali, dunque non sistematica, cercando di considerare sia fonti italiane (eventuali anagrafi delle associazioni registrate nei Comuni di Roma e Torino) sia quelle dei paesi di residenza (eventuali elenchi disponibili presso i Consolati in Italia o presso il ministero degli Esteri nei paesi di partenza).

Il terzo stadio dell’attività di ricerca è stata la somministrazione di interviste strutturate, basate su un questionario identico per tutti e tre i gruppi immigrati, a singoli individui, preferibilmente reclutati secondo un metodo casuale, in seconda istanza attraverso il metodo “a palla di neve”. L’obiettivo del questionario era di registrare il livello di conoscenza e l’intensità di partecipazione nei confronti della politica del luogo in cui i gruppi immigrati risiedono, determinare presenza, natura e scopi delle loro attività politiche verso il paese di provenienza e transnazionali, comprendere il ruolo delle istituzioni, dei network di associazioni nel favorire o scoraggiare la possibilità di tali attività. Si è cercato di raggiungere un campione idealmente casuale e rappresentativo della composizione di genere di circa 80/100 intervistati per ognuno dei tre gruppi. In questa fase, accanto alla somministrazione del questionario, sono state condotte interviste a community leader, testimoni privilegiati e stakeholders in entrambi i paesi coinvolti (esponenti del ministero, consoli, candidati a liste locali, presidenti di associazioni, responsabili delle sezioni estere dei partiti, leader sindacali).

È stato altresì chiesto ai ricercatori, per tutto l’arco temporale della ricerca, di osservare per quanto possibile i principali media e mezzi di informazione (newsletter, newsgroup, giornali, tv satellitari, blog), al fine di registrate i dibattiti pubblici in corso in relazione alla presenza delle comunità in Italia, la loro frequenza, i principali argomenti e l’indirizzo delle istanze politiche sollevate.

Portata a termine le tre fasi di ricerca sul campo, i rapporti di ricerca che sono ospitati in veste di capitoli nel presente rapporto sono stati compilati secondo le seguenti linee guida:

1. Quando e come l’emigrazione diventa un tema politico e una questione che necessita provvedimenti di governance nel paese di partenza? Quali sono le principali motivazioni alla base degli interventi legislativi e amministrativi (protezione sociale, gestione delle risorse economiche, utilizzo politico come lobby nel contesto delle relazioni internazionali, timori di spopolamento)? Quali evoluzioni manifestano le politiche dei paesi di partenza nell’arco di tempo considerato? Quali le principali cause alla base dei cambiamenti o del mantenimento delle politiche?

2. Quali sono i principali soggetti istituzionali coinvolti nella definizione e nella applicazione di politiche verso gli emigrati (paese di partenza) e verso gli immigrati (paese di insediamento)? Qual è il ruolo delle amministrazioni locali e dei soggetti informali (associazionismo etc.) in entrambi i lati del processo migratorio?

3. Esistono attività politiche transnazionali da parte delle comunità considerate? Quali forme e direzioni manifestano in prevalenza (secondo la categorizzazione proposta Østergaard-Nielsen)? Su quali istanze si concentrano? Quali conseguenze determinano? Che intensità presentano?

4. Qual è il ruolo delle politiche dei paesi di partenza nel determinare e influenzare (favorire o scoraggiare) le attività politiche transnazionali degli emigrati? Quale interazione si ha tra le politiche di immigrazione e integrazione del paese di insediamento e le politiche di emigrazione e mantenimento dei legami con gli espatriati del paese di partenza (quadri legislativi che mutano in paese di insediamento hanno conseguenze e influenza su legislazione paese di partenza)?

5. Qual è il ruolo che il contesto giuridico e politico del paese di insediamento gioca nel connotare le attività politiche transnazionali del gruppo considerato?

6. Quali reazioni adottano gli emigrati in risposta alle politiche a loro dedicate e come agiscono nel quadro politico-legislativo delineato dalle politiche dei due paesi (prospettiva dal basso)? Che grado di indipendenza d’azione e di iniziativa manifestano e quali canali istituzionali o di pressione utilizzano? Qual è il ruolo e l’effettiva capacità di rappresentanza dell’associazionismo nel campo politico transnazionale?

Pianificazione della disseminazione e prime conclusioni

Il presente rapporto si configura con i tratti del work in progress. Gli obiettivi principali, relativamente alla disseminazione dei risultati, sono tre:

• una presentazione pubblica degli esiti della ricerca, organizzata da FIERI nella città di Torino tra metà aprile e inizio maggio, alla quale potrebbe affiancarsene, senza particolari costi aggiuntivi, una seconda presso l’Università La Sapienza di Roma – dove uno dei tre ricercatori, Giordano Altarozzi è inquadrato;

• la redazione di un volume da sottoporre entro la metà di maggio al vaglio di referee esterni in vista di una pubblicazione all’interno della linea editoriale FIERI-Carocci;

• due conference papers in inglese, a opera di Francesco Tarantino e di chi scrive. Le comunicazioni avranno luogo in occasione della conferenza internazionale The Transnational Political Practices of Latin American Migrants in Europe, che si terrà a Liegi l’11-12 giugno 2009, all’interno delle attività di IMISCOE (cluster B3). Obiettivo principale della conferenza è di raccogliere un numero sufficiente di contributi originali e di qualità, e proporre un numero speciale a una rivista scientifica internazionale.

Passiamo ora ad alcune brevi riflessioni sui risultati evidenziati dalla nostra ricerca, in riferimento alle principali questioni che il progetto di ricerca si prefiggeva di analizzare, in chiave comparata.

Iniziamo col considerare il ruolo degli stati di partenza, la loro tendenza a mobilitare politicamente i loro emigrati, la loro capacità di influenzarne le attività politiche transnazionali. Come si avrà modo di leggere in dettaglio nei capitoli che seguono, nonostante presentassero condizioni politiche storicamente differenti, tutti e tre gli stati considerati manifestano una decisa inclinazione a riconfigurare il loro ruolo e la loro sovranità al di fuori dei confini nazionali, attraverso politiche specificamente dedicate agli emigrati, specialmente in questi ultimi cinque anni. Se si guarda, dunque, alle istituzioni, trovano conferma le analisi di Aleinikoff e Klusmeyer (2001: 87) circa la tendenza a una gestione delle opportunità dischiuse dalle appartenenze politiche molteplici di cui i migranti sono portatori, mentre si riducono i tentativi di contrastare la diffusione della doppia cittadinanza e/o la partecipazione in più sistemi politici nazionali. Così come paiono essere calzanti le osservazioni di Levitt e de la Dehesa (2003) in merito alle variazioni provocate dalle migrazioni transnazionali ai concetti di membership, ai tentativi di svincolare, superandolo, l’ambito di intervento politico dalla territorialità, in particolare attraverso la costituzione di nuovi apparati dello stato – ministeri o dipartimenti dedicati ai cittadini all’estero e alla definizione delle politiche nei loro confronti – e l’attribuzione del diritto di voto all’estero. Tutti e tre gli stati analizzati, per di più, stanno valutando di introdurre – o lo hanno appena fatto, nel caso della Romania con le elezioni del novembre 2008 – una rappresentanza parlamentare per i cittadini emigrati, con la formazione di circoscrizioni estere, sul modello del sistema italiano. Da quanto ci illustrano gli autori dei tre studi di caso, però, è anche vero che gli sviluppi descritti vanno inquadrati nella prospettiva suggerita da Østergaard-Nielsen (2003b) per la quale, le trasformazioni istituzionali e le politiche che gli stati di partenza introducono come conseguenza della presenza di cittadini all’estero, procederebbero da una ambiguità di fondo che ne fa, essenzialmente sul piano retorico, dei provvedimenti di attenzione verso le istanze e le esigenze di rappresentanza degli emigrati. Nella realtà, si tratterebbe di politiche di controllo, le cui intenzioni sono di tracciare i confini di azione entro i quali gli stati codificano o intendono circoscrivere gli spazi di manovra politica transnazionale dei migranti. In breve, gli stati di partenza cercano di disegnare un quadro giuridico che consenta loro di concedere l’idea di una rappresentanza e di una “voce” agli emigrati, per ottenerne la “fedeltà” intorno a politiche di interesse interno e internazionale.

Purtroppo, i limiti – temporali e di risorse – entro i quali si è dovuta modulare la nostra ricerca non ci hanno consentito di verificare un ambito di azione sul quale un nuovo filone di studi particolarmente interessante sta dedicando le proprie attenzioni. Ci riferiamo alle attività di cosviluppo transnazionali, promosse congiuntamente da stati di partenza e di approdo, quasi sempre a livello di amministrazioni locali, molto spesso in collaborazione con istituti di credito e alcune associazioni di migranti. Tali azioni si traducono generalmente in piani di intervento, che utilizzano le rimesse dei cittadini all’estero, e fanno leva sul loro sentimento di orgoglio di “migrante di successo”, per finanziare progetti di lavori pubblici delle amministrazioni locali o programmi di microcredito per la creazione di imprese nelle regioni da cui provengono in prevalenza i migranti (Lacroix 2003, Orozco 2000, Orozco e Rouse 2007; OECD 2005).

Delineata la cornice di interventi degli stati di partenza verso i loro cittadini all’estero, che contribuiscono a disegnare uno spazio politico transnazionale, passiamo a considerare l’effettiva incidenza di tali misure sul comportamento politico transnazionale degli emigrati nei tre gruppi considerati. Spostando il fuoco dell’attenzione sui migranti stessi, la ricerca ha cercato di trovare risposte su come essi interpretino il loro ruolo di attori politici a cavallo dei confini, con che intensità e frequenza si attivino, se le istanze selle quali si mobilitano siano prevalentemente dirette verso la madrepatria, l’ambito politico locale di residenza o entrambi i luoghi.

Un primo dato da sottolineare è che, malgrado gli sforzi messi in campo dagli stati di partenza per attivare politicamente i propri cittadini all’estero, i migranti peruviani, polacchi e romeni, nonostante i dati relativi alle forme di partecipazione politica convenzionali – voto per le presidenziali o le politiche del paese di origine – non siano certo trascurabili, mostrano tutti e tre segnali di forte insoddisfazione verso le modalità di rappresentanza decise dagli stati di partenza. Le percentuali di votanti all’estero marcano una tendenza a calare, soprattutto nel caso dei peruviani e dei polacchi, e gli intervistati dichiarano di avere contatti sporadici con le autorità della madrepatria. Tuttavia, soltanto i peruviani sembrerebbero mobilitarsi in Italia, attraverso l’associazionismo e i Consejos de Consulta, per cercare di porre rimedio a quello che viene da loro avvertito come un “deficit democratico”. Polacchi e romeni appaiono meno interessati o meno in grado di attivarsi verso lo stato di origine. Per quanto riguarda i romeni, in special modo, Altarozzi sottolinea come le recenti riforme nella legislazione riguardante la partecipazione politica dei cittadini all’estero e le campagne a sostegno dei diritti delle comunità emigrate siano, in verità, state adottate per iniziativa esclusiva delle autorità di Bucarest, senza che siano state registrate pressioni particolari da parte delle comunità romene all’estero.

Nessuna delle tre comunità studiate mostra un coinvolgimento degno di nota nel tipo di attività che abbiamo definito translocali. Un risultato che, onestamente, desta una certa sorpresa, in particolare per i peruviani, considerata l’esistenza di ricerche di segno contrario in letteratura e, in particolare, nel contesto romano (Rhi-Sausi e Conato 2008). Può darsi che ciò dipenda dalle caratteristiche evidenziate dal campione intervistato, proveniente in prevalenza da contesti urbani, la capitale Lima in testa, e con un livello di istruzione medio alto, per cui è assai più probabile che si sia maturato un interesse verso i temi di politica generale, con un minore coinvolgimento verso le politiche locali. Secondo la ricerca empirica, infatti, i peruviani di Roma e Torino sarebbero più inclini a un attivismo politico per la promozione dei propri diritti come immigrati nel contesto di insediamento.

Come già ricordato, in letteratura è ormai assodato che la presenza di pratiche transnazionali non rappresenti una novità nel comportamento dei migranti internazionali. Tuttavia, si distingue, il transnazionalismo recente rispetto a quello del passato presenta la novità di riguardare una porzione più estesa della comunità migrante e di risultare una condizione che si prolunga nel tempo (Smith e Guarnizo 1998). Osservando differenze e similarità nelle attitudini dei tre gruppi considerati nel nostro studio, da una parte, rimane aperta la questione, cui neanche la nostra ricerca sul campo contribuisce a fornire una seppur limitata risposta, se pratiche transnazionali siano empiricamente riscontrabili anche nelle cosiddette seconde generazioni o riguardino soltanto la generazione di chi lascia il paese per insediarsi in uno nuovo. Dall’altra, in tema di intensità e frequenza di pratiche transnazionali, il campione intervistato in tutti e tre i gruppi analizzati, davvero in una ridotta minoranza dichiara di recarsi nel paese di provenienza almeno una volta l’anno, anche là dove, nel caso dei romeni e dei polacchi, per esempio, le connessioni sarebbero a buon mercato e relativamente agevoli. Non pare, perlomeno su questo specifico punto, di potere apprezzare variazioni tanto marcate rispetto al caso, per esempio, delle migrazioni transoceaniche degli italiani a cavallo di XIX e XX secolo, quando per la stagionalità dei loro passaggi, erano definiti golondrinas o birds of passage. Ancora più bassa è la porzione di intervistati che dichiara di avere contatti con le autorità o gli attori politici della madrepatria, che rimangono sporadici e occasionali. Per quanto concerne l’ambito politico, qundue, certe affermazioni su intensità e frequenza delle pratiche transnazionali odierne andrebbero un po’ ricalibrate e, probabilmente, limitate alla fruzione della tivù satellitare e dei sistemi di comunicazione informatici, riconducendo quindi l’attenzione a una dimensione privata/culturale di tali pratiche.

Variabili importanti nel determinare intensità e direzione delle pratiche politiche transnazionali sono senz’altro anzianità migratoria e orizzonte del progetto migratorio. Per esempio, tra i peruviani, coloro che sono da più tempo in Italia manifestano maggiore interesse verso il la politica del loro paese. Intutitivamente, ci si aspetterebe che chi ha da poco lasciato la nazione porti con sé, ancora attivi, interessi e partecipazione verso un dibattito politico da cui ci si è appena distanziati. Tuttavia, come bene ricorda Tarantino, appogiandosi a Joppke e Morawska (2003), ricorre in molti studi di caso che presenza di attività politiche transnazionali e compimento del percorso di integrazione nella società di insediamento si presentino come processi coesistenti. Tra i romeni di Torino e quelli di Roma, il fattore discriminante nel differenziare modalità e frequenza delle attività politiche parrebbe essere, invece, una maggiore o minore decisione nell’orientare il percorso migratorio sul breve o lungo periodo. In ogni modo, le osservazioni su entrambe le variabili sembrano determinare utili informazioni sul comportamento all’interno dei singoli gruppi analizzati, ma non indicano modelli di condotta più generali ed applicabili ad altri casi.

Proseguendo nella comparazione, tra le tre, la comunità peruviana si conferma, come nelle ipotesi di ricerca, la più “politicizzata”. Lo mette in luce anche Tarantino, nel rendere conto della frequenza con cui il campione intervistato dichiara di informarsi sui temi politici del loro paese e italiani, i peruviani denotano un alto livello di coinvolgimento sui temi politici legati al paese di provenienza e di destinazione. Se la comunità polacca mostra davvero un grado estremamente basso non solo di mobilitazione, ma anche di consapevolezza di quelli che sono i suoi diritti politici nel contesto comunitario, peruviani e romeni appaiono invece assai più informati sulle questioni fondamentali concernenti il panorama politico di origine, di insediamento e delle relazioni tra l’Italia e il loro paese. È apprezzabile il livello di militanza in partiti o sindacati della madrepatria da parte dei romeni osservati, ma anche nei sindacati del contesto di destinazione, a parziale smentita dell’ipotesi iniziale di un rigetto, che ci si attendeva più marcato, verso la politica romena come effetto “lungo” della dittatura di Ceausescu, dell’alto livello di corruzione della classe dirigente e delle difficoltà sistemiche emerse nel periodo della transizione.

Tuttavia, non si deve sovrastimare la capacità di tradurre l’interesse mostrato verso i temi della politica, anche internazionale, in effettiva mobilitazione. Da un parte, infatti, la politicizzazione dei romeni appare come una reazione innescata dalla specificità del loro caso nel contesto italiano, dove il dibattito pubblico e mediatico degli ultimi mesi si è concentrato sensibilmente sui problemi di ordine pubblico, sorti intorno alla loro presenza nel paese – in particolare, come ricorda Altarozzi, subito dopo il cosiddetto “caso Mailat” o “caso Reggiani”, la comunità romena ha reagito all’onda mass-mediatica e politica di accuse mosse nei suoi confronti, anche attraverso la formazione di associazioni di tutela dei diritti e dell’immagine dei lavoratori romeni[1]. Dall’altra, sono le autorità istituzionali romene, in un momento politico particolare come questo dell’ingresso del paese nella Unione Europea, ad avere interesse a mobilitare gli emigrati come attori transnazionali e potenziare la loro visibilità politica come strumento di pressione da utilizzare nelle relazioni con gli stati partner europei. Come emerge dalla lettura del secondo capitolo, la partecipazione politica in Italia risulta però debole all’atto pratico, non solo per responsabilità di un sistema politico italiano particolarmente chiuso verso nuovi soggetti, ma anche per una scarsa capacità o uno basso interesse dei romeni stessi a mobilitarsi.

È il momento, dunque, di dedicarsi alla peculiarità del sistema politico italiano nei confronti dell’integrazione politica delle tre comunità considerate. È vero che il quadro legislativo delle tre nazioni di origine può presentare differenze – anche se non troppo, come evidenziano le precise ricostruzioni storiche dell’evoluzione delle politiche verso gli emigrati, ospitate all’inizio dei singoli capitoli –, così come la condizione di appartenenza alla Unione Europea può comportare, già in partenza, uno spettro più ampio di opportunità di partecipazione per i cittadini polacchi e romeni – diritto di voto alle elezioni amministrative e per le elezioni europee – rispetto ai peruviani. Tuttavia il contesto italiano, specialmente per quanto concerne la militanza politica attiva e l’accesso alle partecipazione politica, si caratterizza per essere un sistema particolarmente chiuso, a bassissimo tasso di turn over, poco in grado di recepire le trasformazioni in atto nella società, soprattutto in termini di rappresentanza (Urbinati 2008). Nei confronti degli immigrati, poi, gli effetti di una discriminazione positiva nei confronti del cittadino comunitario sono ridotti, nella prassi, da un generico atteggiamento di rifiuto verso lo “straniero”, che ha caratterizzato ancora più marcatamente l’Italia recente. È interessante notare come, nel campione intervistato, siano gli immigrati romeni, oggetto di una campagna politica e mediatica di discriminazione molto violenta, a tratti xenofoba, (quasi) senza precedenti (Mai 2002), gli unici a ritenere che un coinvolgimento in attività politiche possa essere nocivo alla loro integrazione nel paese. Chiusura e discriminazione, ci insegna spesso la storia, sortiscono però l’effetto contrario a quello desiderato e finiscono per accelerare la politicizzazione delle comunità immigrate e la loro domanda di partecipazione. Per di più in termini transnazionali, chiedendo cioè diritti e rappresentanza nel paese di insediamento, mentre si esercitano pressioni sulle istituzioni dello stato di origine perché intervenga. Come osserva correttamente Altarozzi – e come se ne lamenta l’eurodeputata Weber da lui citata – per adesso, la mobilitazione degli immigrati romeni in Italia sembra essere molto bassa, in parte per la chiusura del sistema politico italiano – l’accusa in tal senso, di nuovo, è della Weber – ma in parte anche per la scarsa motivazione a chiedere “voce” fin qui manifestata dalla comunità.

Il sistema della rappresentanza politica in Italia, però, non è nemmeno così impermeabile agli immigrati, se consideriamo i dati forniti dagli studi sui casi romeni e peruviani, dove un numero non risibile di intervistati dichiara di essere iscritto a un partito o a un sindacato italiani e di prendere parte attivamente alle loro iniziative. Senza trascurare, poi, la possibilità di praticare in alternativa altri canali, rappresentati dall’associazionismo a matrice cattolica e dalla Chiesa, come dimostra emblematicamente. In sintesi, come in altri settori delle politiche di integrazione – il caso della scuola e delle seconde generazioni ne è l’esempio forse più eclatante (Ambrosini e Molina 2004, Ministero della Pubblica istruzione 2008a, 2008b), in politica soprattutto il nostro paese mostra di procedere verso l’integrazione degli immigrati con un passo estremamente lento.

In conclusione, possiamo parlare, per tutti e tre i casi analizzati, di presenza di attività politiche transnazionali? E in caso di risposta affermativa, che tipo di impatto possiamo prevedere avranno sul loro percorso di integrazione politica? Con tutti i limiti che denuncia, anche in termini di accuratezza e consolidamento di strumenti metodologici, l’aproccio transnazionale allo studio dell’integrazione e della mobilitazione politica dei migranti (Martiniello e Lafleur 2008: 654-657), un paradigma analitico relativamente nuovo e ancora poco supportato da ricerche empiriche, i risultati della nostra ricerca non si discostano molto da quelli di altri lavori a carattere “pionieristico”, conclusi di recente in Italia su altre nazionalità immigrate (Boccagni 2007; Coslovi e Gomes Faria 2009). La nostra indagine ha l’indubbio valore di ricostruire le politiche emigratorie dei paesi di partenza considerati, le strategie implementate, con il valore aggiunto della prospettiva storica, per conseguire una riterritorializzazione delle relazioni tra istituzioni ed emigrati. Si evidenzia come i provvedimenti di (re-)inclusione politica della popolazione residente all’estero siano, per la verità, soggetti a obiettivi, che mutano nel tempo, di politica interna o internazionale degli stati di origine, e mai la risultante di una domanda di partecipazione e rappresentanza efficacemente incanalata dalle diaspore verso le istituzioni della madrepatria. L’indagine empirica conferma che sono poco diffuse forme di transnazionalismo politico – in tutte e tre le declinazioni mututate da Østergaard-Nielsen – tra le comunità peruviana, polacca e romena in Italia.

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APPENDICE: Questionario somministrato al campione di intervistati

Sez. 1 – ANAGRAFICA

1.1 Città di residenza/domicilio (area in cui la persona vive e lavora abitualmente: la provincia):

1.2 Luogo di nascita (città e provincia/regione/stato):

1.3 Provincia/regione/stato dove ha vissuto per la maggior parte del tempo in Perù/Romania/Polonia:

1.4 La città/il paese dove ha vissuto per la maggior parte del tempo in Perù/Romani/Perù aveva un numero di abitanti compreso tra:

 < 1.000 abitanti  tra 1.000-5.000  tra 5.000-15.000  tra 15.000-50.000 tra 50.000-100.000  100.000-500.000  > 500.000

1.5 Anno di nascita:

(Classi di età:

 18-25  26-30  31-35  36-40  41-45  46-50  51-55

 56-60  61-65  65-oltre )

1.6 Sesso:  F  M

1.7 Stato civile:

 Nubile/Celibe  Coniugata/o  Separata/o-Divorziata/o  Vedova/o

1.8 Nazionalità dell’eventuale coniuge:

1.9 Numero eventuali figli/e:

 0  1  2  3  > 3

1.10 La sua famiglia risiede in Italia?

 Coniuge  Coniuge e figli (almeno un figlio)  Figli (almeno un figlio)  Non sa/Non risponde

1.11 Titolo di studio conseguito?

 Nessuno  Scuola Elementare/Primaria  Scuola Superiore/Secondaria

 Università  Post-universitario  Non sa/Non risponde

1.12 Occupazione:

 Lavoro dipendente  Lavoro autonomo Studente  Disoccupato  Pensionata/o

 Non sa/Non risponde

1.13 Settore d’impiego:

|Industrie (più di 15 dipendenti) ( |Servizi alle imprese ( |

|Industrie (meno di 15 dipendenti) ( |Insegnamento (lingua, danza, cucina etc) ( |

|Edilizia |Ristorazione/alberghi ( |

|( | |

|Trasporti, movimentazione merci ( |Pulizie |

| |( |

|Agricoltura ( |Ambulantato ( |

|Commercio: |Lavoro domestico o di cura (Badante, Colf, ecc.) ( |

|Abbigliamento ( | |

|Alimentare ( | |

|Internet/Phone Center ( | |

|Altro (specificare: ) ( | |

|Artigianato ( |Terzo settore ( |

|Impiegatizio ( |Altro (specificare ) ( |

1.14 Anno in cui si è trasferito in Italia:

1.15 Principale motivo del trasferimento all’estero:

 Professionale/economico  Affettivo/ricongiungimento familiare  Studio

 Politico Personale/altro (specificare: )  Non sa/Non risponde

1.16 Come giudica il suo livello di conoscenza dell’italiano?

 nullo  scarso  sufficiente  buono ottimo

Sez. 2 (paese di provenienza)

2.1 Quante volte è tornato nel suo paese nell’arco di un anno?

 0  0,5  1  1,5  2  2,5  3  3,5  4  > 4  Non sa/Non risponde

2.1 bis Per Romeni e Polacchi: la frequenza dei ritorni in patria è cambiata dopo l’ingresso del Suo paese nella UE?

 Sì, è aumentata  No, stessa frequenza  Sì, diminuita  Non sa/Non risponde

2.2 Quanto dista approssimativamente in Km dall’Ambasciata o dal Consolato del Suo paese di provenienza (anche Ag.Consolare):

 Stessa città  _________(tot. Km)  Non sa/Non risponde

2.3 Quante volte ha avuto contatti con l’Ambasciata o il Consolato del Suo paese nell’arco di un anno?

 0  0,5  1  1,5  2  2,5  3  3,5  4  > 4  Non sa/Non risponde

2.4 Quanto conosce i temi della politica del suo paese

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

2.5 Nel suo paese era iscritto a un partito?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

Se sì

2.5.bis È ancora iscritto o frequenta abitualmente il partito?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.6 Era iscritto a un sindacato?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

Se sì

2.6 bis È ancora iscritto o frequenta abitualmente il sindacato?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.7 Era membro o frequentava abitualmente qualche Associazione a carattere politico-sociale (ong, gruppi di pressione, movimenti)?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

Se sì

2.7 bis È ancora iscritto o frequenta abitualmente l’associazione?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.8 Conosceva il nome del sindaco della sua città/ del suo villaggio al momento della sua partenza?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.9 Conosce il nome dell’attuale sindaco della sua città/del suo villaggio da cui proviene?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.10 Conosceva il nome del presidente della Provincia/Regione/Stato in cui si trova la sua città di provenienza al momento della sua partenza?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.11 Conosce il nome dell’attuale presidente della Provincia/Regione/Stato in cui si trova la sua città di provenienza?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.12 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che governa attualmente la sua Provincia/Regione/Stato?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.13 Conosce il nome del presidente/primo ministro attualmente in carica in Perù/Polonia/Romania?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.14 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che sono attualmente al governo nel Suo paese?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.15 Esprima il suo grado di interesse verso i seguenti temi politici, riguardanti il suo paese di provenienza:

Amministrazione/Governo locale della Sua Provincia/Regione/Stato di provenienza:

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Dibattito tra i partiti e campagne elettorali

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Rapporti Romania/Polonia/Perù-Italia

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Rapporti Romania/Polonia/Perù-UE

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Economia (politica fiscale, aiuti allo sviluppo e all’occupazione)

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Emigrazione (assistenza, rimesse, pensioni, etc)

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Diritti dei lavoratori, Sindacati, Politiche del lavoro

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

2.16 Lei ha il diritto di voto all’estero per le elezioni del Suo paese?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

2.17 Se sì, quante volte ha esercitato il suo diritto da quando risiede all’estero?

 Mai  < del 50%  > del 50%  Sempre  Non sa/Non risponde

2.18 Quanto considera importante l’opportunità di esercitare il suo diritto di voto all’estero?

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

2.19 Quali di queste forme di attività politica rivolte al Suo paese ha svolto da quando è in Italia? (al massimo 3)

 ha avviato e/o preso parte a discussioni politiche (comizio o assemblea politica)

 ha avuto contatti con un dirigente politico/sindacale

 ha versato offerte in denaro per un candidato o per un partito

 ha contribuito economicamente a progetti di sviluppo nell’area da cui proviene

 ha costituito una associazione politica o una sezione di partito/sindacato

 si è candidato per qualche carica elettiva

 ha scritto a un giornale

 ha aderito a un boicottaggio

 ha firmato una petizione

 ha preso parte a cortei e manifestazioni

 ha utilizzato forme di protesta violenta

 Altro. Specificare:______________________________________________________________________

 Nessuna

 Non sa/Non risponde

2.20 Con che frequenza partecipa a forme di attività politica rivolte al Suo paese?

 Mai  Solo per le elezioni  Saltuariamente (1-2 volte l’anno)  Spesso (almeno 1-2 volte al mese  Tutte le settimane/giorni  Non sa/Non risponde

2.21 Con che frequenza partecipa ad iniziative con lo scopo di celebrare festività del suo paese?

 Mai  Solo quando ero in Perù/Polonia/Romania  Solo da quando sono in Italia  Sempre

 Non sa/Non risponde

2.21 bis In caso di partecipazione a iniziative di celebrazione di festività nazionali, che tipo di forma generalmente assumono tali iniziative? (massimo 2 opzioni)

 Cortei e manifestazioni pubbliche

 Raccolta fondi

 Raccolta firme, petizioni

 Spettacoli, concerti, cena in spazi pubblici

 Riunione in sede associazioni

 Celebrazione privata (casa o gruppi di famiglie)

 Altro. Specificare:______________________________________________________________________

 Non sa/Non risponde

2.22 Scelga dalla lista i metodi principali attraverso i quali si informa sulla politica e gli avvenimenti del Suo paese: (al massimo 3)

 Stampa della comunità polacca romena peruviana in Italia

 Stampa polacca romena peruviana (cioè giornali del paese di provenienza su internet o cartacaeo)

 Bollettino/Newsletter di associazione a carattere locale del paese di provenienza

 Stampa italiana

 Radio e Televisione satellitare del Suo paese di provenienza

 Radio e Televisione italiana

 Internet – siti italiani

 Internet – siti peruviani/polacchi/romeni

 Associazione frequentata in Italia

 Associazione del paese di origine

 Sindacato in patria

 Partito in patria

 Partito in Italia (sede estera)

 Sindacato in Italia (sede estera)

 I Consolati in Italia

 I connazionali in Italia

 I connazionali in patria

 I miei colleghi

 Altro (specificare)_______________________________________________________________________

 Nessuno di questi/ non mi reputo informato

 Non sa/Non risponde

2.23 Con che frequenza si informa sugli avvenimenti politici del Suo paese?

 Mai  Solo per le elezioni  Saltuariamente (1-2 volte l’anno)  Spesso (almeno 1-2 volte al mese  Tutte le settimane/giorni  Non sa/Non risponde

Sez. 3 (paese di residenza)

3.1 Quanto conosce i temi della politica italiana?

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

3.2 È iscritto a o frequenta un partito italiano?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.3 È iscritto a o frequenta un sindacato italiano?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.4 È membro di qualche associazione a carattere politico o sociale (associazione di immigrati, ong, gruppi di pressione, movimenti)?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.5 Conosce il nome dell’attuale sindaco della città italiana in cui vive?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.6 Conosce il nome dell’attuale presidente della Regione italiana in cui vive?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.7 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che governa attualmente la Regione italiana in cui vive?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.8 Conosce il nome del presidente del Consiglio attualmente in carica in Italia?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.9 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che sono attualmente al governo in Italia?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.10 Potrebbe collegare a ogni partito il rispettivo leader, scegliendo dalla lista dei nomi proposti?

 La Destra  Silvio Berlusconi

 Fausto Bertinotti

 Italia dei Valori (IDV)  Emma Bonino

 Umberto Bossi

 Partito Democratico (PD)  Pierferdinando Casini

 Antonio Di Pietro

 Udc (Unione di Centro)  Gianfranco Fini

 Clemente Mastella

 La Sinistra Arcobaleno  Alessandra Mussolini

 Giorgio Napolitano

 Lega Nord  Romano Prodi

 Francesco Rutelli

 PdL (Popolo della Libertà)  Daniela Santanché

 Francesco Storace

 Udeur  Walter Veltroni

 Non sa/Non risponde

3.11 Esprima il suo grado di interesse verso i seguenti temi politici, riguardanti l’Italia:

Amministrazione/Governo locale della Regione in cui vive

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Dibattito tra i partiti e campagne elettorali

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Rapporti Italia/Romania/Polonia/Perù

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Economia (politica fiscale, aiuti allo sviluppo e all’occupazione)

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Immigrazione (quote, assistenza, rimesse, pensioni, etc)

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Diritti dei lavoratori, Sindacati, Politiche del lavoro

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

Cittadinanza (norme che regolano l’accesso alla cittadinanza italiana, anche per i minori e gli stranieri nati in Italia)

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

3.12 Lei ha il diritto di voto per le elezioni italiane?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

Se sì

3.12.1 per quali elezioni tra quelle nell’elenco ha diritto di voto in Italia? (barrare anche più di una)

 Politiche/generali italiane  Amministrative/Locali  Europee

 Tutte  Non sa/Non risponde

3.12.2 Se sì, quante volte ha esercitato il suo diritto da quando ne ha facoltà?

 Mai  < del 50%  > del 50%  Sempre  Non sa/Non risponde

3.13 Quanto considera importante l’opportunità di possedere il diritto di voto in Italia?

 0 per niente  1 poco  2 abbastanza  3 molto  Non sa/Non risponde

3.14 Quali di queste forme di attività politica su questioni che riguardano la sua vita qui ha svolto da quando è in Italia? (al massimo 3)

 ha avviato e/o preso parte a discussioni politiche (comizio o assemblea politica)

 ha avuto contatti con un dirigente politico/sindacale

 ha versato offerte in denaro per un candidato o per un partito

 ha costituito una associazione politica o una sezione di partito/sindacato

 si è candidato per qualche carica elettiva

 ha scritto a un giornale

 ha aderito a uno sciopero o un boicottaggio

 ha firmato una petizione

 ha preso parte a cortei e manifestazioni

 ha utilizzato forme di protesta violenta

 Altro (specificare)_______________________________________________________________________

 Nessuna

 Non sa/Non risponde

3.15 Con che frequenza partecipa a forme di attività politica legate alla sua vita in Italia?

 Mai  Solo per le elezioni  Saltuariamente (1-2 volte l’anno)  Spesso (almeno 1-2 volte al mese  Tutte le settimane/giorni  Non sa/Non risponde

3.16 Scelga dalla lista i tre metodi principali attraverso i quali si informa sulla politica e gli avvenimenti italiani:

 Stampa della comunità polacca romena peruviana in Italia

 Stampa polacca romena peruviana (cioè giornali del paese di provenienza)

 Stampa italiana

 Radio e Televisione satellitare del Suo paese di provenienza

 Radio e Televisione italiana

 Internet – siti italiani

 Internet – siti peruviani/polacchi/romeni

 Associazione frequentata in Italia

 Associazione del paese di origine

 Sindacato (italiano)

 Partito (italiano)

 I connazionali in Italia

 I connazionali in patria

 I miei colleghi

 Altro (specificare)______________________________________________________________________

 Nessuno di questi/ non mi reputo informato

 Non sa/Non risponde

3.17 Con che frequenza si informa sugli avvenimenti politici italiani?

 Mai  Solo per le elezioni  Saltuariamente (1-2 volte l’anno)  Spesso (almeno 1-2 volte al mese  Tutte le settimane/giorni  Non sa/Non risponde

3.18 Ha mai pensato che fare attività politica in Italia e fare attività politica in Perù/Romania/Polonia possa essere fonte di complicazioni per la sua vita o per i rapporti tra i due paesi?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.19 Crede che le Autorità del suo paese possano considerare scorretto o sconveniente il fatto che lei svolga qualche attività politica in Italia?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.20 Crede che le Autorità italiane possano considerare scorretto o sconveniente il fatto che lei svolga qualche attività politica nel suo paese?

 Sì  No  Non sa/Non risponde

3.21 Con quale di queste affermazioni si sente maggiormente d’accordo?

 prendere parte ad alcune attività politiche nel mio paese/per il mio paese è assolutamente incompatibile con la mia integrazione in Italia

 prendere parte ad alcune attività politiche nel mio paese/per il mio paese è perfettamente compatibile con la mia integrazione in Italia

 prendere parte ad alcune attività politiche nel mio paese/per il mio paese non ha nulla a che fare con la mia integrazione in Italia

 Non sa/Non risponde

3.22 Con quale di queste affermazioni si sente maggiormente d’accordo?

 prendere parte ad attività politiche in Italia mi stimola a prendere parte ad attività politiche nel mio paese/per il mio paese

 prendere parte ad attività politiche in Italia mi disincentiva a prendere parte ad attività politiche nel mio paese/per il mio paese

 prendere parte ad attività politiche in Italia non ha nessuna influenza sulla mia partecipazione ad attività politiche per il mio paese/nel mio paese

 Non sa/Non risponde

Questionario

 Pe #______

 Pl #______

 R #______

Data dell’intervista: ____________________

Luogo dell’intervista: ____________________

Durata dell’intervista:____________________

Grado di disponibilità dimostrato dall’intervistato:

 elevato  buono  discreto  scarso  nullo

Grado di interesse per il tema dimostrato dall’intervistato:

 elevato  buono  discreto  scarso  nullo

Grado di competenza rispetto al tema dimostrato dall’intervistato:

 elevato  buono  discreto  scarso  nullo

Lingua utilizzata per l’intervista:

 italiano  polacco  rumeno  spagnolo

Se in italiano, grado di competenza linguistica riscontrato dall’intervistato:

 elevato  buono  discreto  scarso  nullo

Commenti dell’intervistatore:

I. Il caso peruviano. Le comunità peruviane a Roma e Torino.

Francesco Tarantino

INDICE

I.1 -La nascita della questione migratoria in Perú: fasi e caratteristiche di un esodo

I.1.1 “El quinto suyo” e la nascita della questione migratoria.

I.1.2 Fasi e caratteristiche dell’emigrazione peruviana nel mondo.

I.2 - Legislazione e politica migratoria dello Stato peruviano

I.2.1 La questione migratoria come issue centrale nelle politiche statali

I.2.2 I Consejos de Consulta tra partecipazione e deficit democratico.

I.2.3 Le istituzioni coinvolte e lo schema delle competenze.

I.2.4 Dal Governo Toledo al Governo Garcìa: i principali punti dell’attuale politica migratoria dello Stato peruviano

I.2.5 Le “sette politiche” migratorie del Governo peruviano

I.3 La comunità peruviana in Italia: i casi di Roma e Torino.

I.3.1 La comunità peruviana in Italia.

I.3.2 Peruviani a Roma e Torino, nei dati dell’ISTAT e delle Amministrazioni Comunali: numero, genere ed età

I.3.3 Alcuni dati dei Consolati: provenienza, età, stato civile, livello di istruzione e occupazione.

I.3.4 Le Associazioni peruviane a Roma e Torino.

I.3.5 La partecipazione politica dei peruviani in Italia: il voto per le presidenziali del 2006

I.4 L’indagine empirica nelle città di Roma e Torino

I.4.1 Peruviani a Roma e Torino: i dati emersi dall’indagine empirica

I.4.2 Comportamento politico transnazionale nelle città di Roma e Torino

BIBLIOGRAFIA

I.1. La nascita della questione migratoria in Perú: fasi e caratteristiche di un esodo

I.1.1 “El Quinto Suyo” e la nascita della questione migratoria.

L’antico impero Inca, che aveva la sua capitale nella città peruviana di Cusco, esisté per poco più di trecento anni, prima di essere definitivamente annientato dai conquistadores spagnoli nel sedicesimo secolo. Nel periodo di massima espansione, l’Impero contava quattro grandi regioni e i suoi confini andavano ben oltre quelli attuali dello Stato peruviano. Era chiamato, nella lingua quechua, Tawantisuyu, letteralmente “le quattro regioni unite tra loro”[2].

Negli ultimi decenni, quando il fenomeno migratorio peruviano ha iniziato a prendere la consistenza di un vero e proprio esodo è stato introdotto il termine “El Quinto Suyo”, derivato proprio dall’antica parola quechua che indicava il nome dell’Impero Inca. Tale espressione, ormai ampiamente utilizzata sia in ambito politico che accademico, indica un’ipotetica quinta regione del Perú, costituita dall’insieme dei peruviani emigrati nel mondo. La nazione peruviana, ormai, ha confini che vanno aldilà di quelli territoriali, e l’importanza politica ed economica dei milioni di emigrati non è sfuggita all’attuale classe politica che, attraverso la retorica del “Quinto Suyo”, tenta in ogni modo di mantenerli legati alla madrepatria. Tale attenzione, nata con il Governo del Presidente Alejandro Toledo (2001-2006), è coincisa con il periodo di massima espansione dei flussi migratori in uscita, che hanno portato a un notevole incremento del peso economico delle rimesse inviate dall’estero e del peso politico del voto esercitato dai peruviani nel mondo. Sotto questo profilo infatti, come osservato nell’analisi del voto peruviano del 2000 del politologo Gregory Schmidt, per la prima volta il voto dall’estero si è rivelato essere decisivo nella scelta del futuro Presidente, essendo stata minima la differenza tra i due candidati al primo turno (Schmidt, 2002, p. 346)[3].

Se la nascita di una questione migratoria per i governi di Lima è cosa relativamente recente, l’emigrazione peruviana ha radici un po’ più lontane. Vale la pena osservarne brevemente le tappe storiche, nonché l’entità numerica, prima di vedere in che modo la questione è stata affrontata a livello politico.

La mancanza di un registro anagrafico dei residenti all’estero rende impossibile, per lo Stato peruviano, quantificare esattamente il numero di connazionali che vivono fuori dei propri confini. Sono pochi anni, peraltro, che le istituzioni peruviane, a vari livelli, hanno intrapreso studi e ricerche per quantificare e studiare le caratteristiche della presenza peruviana nel mondo.

I.1.2 Fasi e caratteristiche dell’emigrazione peruviana nel mondo

Teófilo Altamirano, esperto di storia dell’emigrazione peruviana, ha studiato le caratteristiche, i motivi e l’entità dell’esodo che hanno portato i peruviani in ogni parte del mondo, individuando cinque fasi principali di tale fenomeno, alle quali è possibile aggiungere una sesta fase corrispondente agli ultimi 8 anni:

- prima fase: 1910-1920/1950 ;

- seconda fase: 1950/1960;

- terza fase: 1960/1980;

- quarta fase: 1980/1992;

- quinta fase: 1992/2000;

- sesta fase: 2000/oggi.

La prima fase (1910-1950) dell’emigrazione peruviana vede come principale destinazione i distretti industriali nordamericani di New York e del New Jersey che stavano sperimentando un notevole sviluppo industriale. La domanda di lavoro, soprattutto nel settore tessile, era notevole e molti peruviani, già specializzati nella lavorazione della lana di alpaca, furono ben accolti nelle fabbriche di Patterson e delle altre città della costa atlantica. In questi stessi anni vi era, inoltre, un’emigrazione d’élite (per ragioni di studio, potere e prestigio) verso gli Stati dell’Europa occidentale, dove avevano sede le università più prestigiose (Altamirano, 2000). Andare in Europa «era un rito di passaggio che formava parte dell’identità oligarchica, soprattutto se significava andare a studiare in Università come quella di Salamanca, Oxford, la Sorbona o Cambridge» (Altamirano, 1999: p. 26). L’entità di questa prima ondata migratoria è piuttosto bassa e il Perú, in quegli anni, continuava a essere principalmente un paese di immigrazione, dove arrivavano molti giapponesi, italiani, spagnoli, nordamericani e argentini.

La seconda fase (1950-1960) è quella cruciale che vede un cambiamento netto e irreversibile nei segni dei flussi migratori: il passaggio del Perú da paese di immigrazione a paese di emigrazione. Tale tendenza era già cominciata nei primi anni cinquanta quando, avviata la ricostruzione post-guerra in Europa, la situazione economica del vecchio continente migliorò notevolmente e molti peruviani furono attratti dalle nuove possibilità di lavoro. Di contro, in molti paesi latinoamericani, la situazione economica peggiorò gradualmente soprattutto per le classi medie che videro ridotto il loro potere d’acquisto. Le politiche adottate dai vari Governi peggiorarono la situazione, portando la disoccupazione a livelli insostenibili. Le destinazioni preferite erano Spagna, Italia e Francia. Ma soprattutto la maggior parte dei peruviani si dirigeva verso gli Stati Uniti, grazie ad un’offerta di lavoro certamente più attraente. Non si hanno dati esatti della popolazione peruviana emigrata fino al 1960 ma, confrontando le stime delle uscite dal paese con i dati in calo delle entrate, appare abbastanza evidente che, a partire dagli anni cinquanta, il numero di emigrati inizia a superare il numero di immigrati.

La terza fase (1960-1980) vede un aumento ulteriore dei flussi in uscita, insieme ai livelli più bassi di flussi in entrata nel paese. Investitori stranieri e lavoratori immigrati, infatti, abbandonano gradualmente la possibilità di scegliere Lima come luogo di opportunità per lavoro e affari. È l’epoca dei governi militari nazionalisti che si opponevano al mondo occidentale: nazionalizzazioni delle banche, delle industrie e la riforma agraria furono i fattori che più influenzarono l’inversione dei flussi emigratori di questo periodo. Tale indirizzo politico, che comportò un’apertura diplomatica e commerciale con i paesi del blocco comunista, fu la causa di una nuova ondata migratoria di studenti verso le Università di Praga, Mosca e Budapest. Inizia anche un consistente flusso migratorio verso altre destinazioni continentali come Messico, Argentina e Venezuela. L’emigrazione verso l’Europa Occidentale (Francia e Spagna soprattutto) è piuttosto bassa in questo periodo e, contrariamente a quella verso gli Stati Uniti, non è connotata da una forte presenza di lavoratori quanto piuttosto di studenti dell’élite bianca e mestiza di Lima[4]. Da questa fase è possibile anche formulare le prime stime sul numero di peruviani nel mondo. Secondo Altamirano (1999: p. 28), nel 1980, era già di 500.000 il numero di emigrati mai rientrati di cui oltre 300.000 residenti negli Stati Uniti.

La quarta fase (1980-1992) corrisponde con il difficile ritorno a un regime democratico e con il periodo di più grande violenza politica della storia del paese. La dura lotta dello Stato peruviano contro il terrorismo interno di stampo marxista-rivoluzionario di Sendero Luminoso, lasciò sul campo numerose vittime, un alto grado di paura e incertezza, e una profonda crisi politica e culturale che avrebbe pesantemente segnato anche gli anni successivi. La violenza politica degli anni ottanta, peraltro, non produsse solo l’emigrazione volontaria, ma anche una buona quantità di esiliati politici. Si stima che uno ogni quattro migranti di questa fase sia stato costretto a lasciare il paese per motivi politici (Altamirano, 1999: p. 28). Internamente questi anni di violenza produssero circa 800.000 rifugiati, che dalle zone più periferiche e instabili del paese si riversarono in massa intorno alla capitale Lima e alla zona costiera dando vita a quegli agglomerati di baracche e case fatiscenti noti come pueblos jovenes. Neanche l’epoca della dittatura militare riuscì a produrre un numero così elevato di rifugiati interni.

La crisi economica e il forte impoverimento del paese furono, inoltre, gli altri fattori che produssero un deciso aumento dell’emigrazione nonché un cambio nelle destinazioni raggiunte. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, infatti, gli Stati dell’Europa occidentale (soprattutto Spagna e Italia, ma anche Germania, Francia e Belgio) diventano le mete principali per i lavoratori peruviani, così come il Giappone che aprì negli stessi anni le frontiere ai discendenti dei suoi emigrati in Perú[5]. Stando alle stime del Ministero degli Esteri e della Direzione Generale per le Migrazioni e le Naturalizzazioni (DIGEMIN) presso il Ministero dell’Interno, l’anno di maggiore emigrazione fu il 1989, lo stesso anno in cui la violenza politica nel paese e gli attentati terroristici in piena città a Lima raggiunsero il loro apice: circa 80.000 peruviani partiti in quell’anno non hanno fatto più ritorno[6]. L’incremento dell’emigrazione in questa fase portò a superare ampiamente la cifra di un milione di emigrati. Secondo le stime di Altamirano (1999: p. 28), nel 1992, la popolazione peruviana nel mondo sarebbe ammontata a circa 1.500.000 unità.

La quinta fase (1992-1999) è caratterizzata da un ulteriore incremento dei flussi migratori, questa volta dovuto alla stabilizzazione economica e al miglioramento della situazione politica nel paese, con una netta prevalenza delle destinazioni europee, in particolare Italia e Spagna. Di questo periodo è possibile anche avere delle cifre ufficiali sui flussi in uscita: secondo un’indagine recentemente pubblicata, condotta congiuntamente dall’OIM (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) e dall’INEI (Instituto Naciónal de Estadistica y Informatica del Perú), nel periodo 1992-1999 sarebbero emigrati 420.239 peruviani, con una media, dunque, di oltre 52.000 unità all’anno[7]. È ipotizzabile, di conseguenza, che il numero di peruviani all’estero negli ultimi anni novanta sfiorasse la quota dei due milioni, a fronte di una popolazione totale di 25.230.000[8].

La sesta fase (2000-oggi) vede un incremento senza precedenti dei flussi in uscita con aumenti fino a sei volte rispetto alla media del periodo precedente; nel solo anno 2006 sono emigrate complessivamente 291.500 persone.

Tale balzo in avanti, certamente inatteso anche dai più illustri studiosi dei fenomeni migratori in Perú, ha di colpo portato l’attenzione dei policy-makers sulla questione, inaugurando una fase assolutamente nuova nella gestione migratoria dello Stato peruviano. Per aver un’idea dell’entità di tale aumento, si consideri che tra il 2000 e il 2007 sarebbero emigrati dal Perú 1.405.633 cittadini, vale a dire 175.700 all’anno di media, con aumento del 250% rispetto agli otto anni precedenti. In altre parole, nel solo periodo 2000-2007, sarebbero partiti tanti cittadini quanti quelli emigrati in totale tra gli anni venti e gli anni novanta. Le cause di questo vero e proprio esodo sono da ricercarsi certamente nel peggioramento delle condizioni economiche e politiche del paese, nel ritorno di un grave deficit democratico e della violenza di Stato, nell’era del Governo Fujimori. In realtà negli ultimi quattro anni le condizioni economiche sembrano essere migliorate decisamente con un aumento del PIL e dei tassi di occupazione; nonostante ciò, fatta eccezione per l’anno 2007 che ha registrato una leggera flessione, l’emigrazione continua a ritmi sostenuti, testimoniando così l’importanza dell’emigrazione come fattore strutturale dell’economia peruviana oltre ad una certa rilevanza del fattore inerziale tra le cause del movimento migratorio peruviano.

Attraverso le stime costruite dall’OIM e dal DIGEMIN, si può solo calcolare che, in totale, nel periodo compreso tra il 1990 e il 2007 il numero di peruviani usciti dal paese e mai rientrati è pari a 1.940.817[9]. È possibile quindi ipotizzare, al netto dei rientri registrati e senza calcolare l’enorme numero di emigrati irregolari, che siano circa 3.000.000 i peruviani che oggi risiedono legalmente all’estero, vale a dire circa il 10% dell’intera popolazione.

Il Grafico n.1 mette in evidenza i paesi di destinazione dell’emigrazione peruviana negli ultimi diciotto anni.

Grafico n.1 – Destinazione dell’emigrazione peruviana dal 1990 al 2008.

[pic]

Fonte: Elaborazione su dati OIM e DIGEMIN.

I.2 Legislazione e politica migratoria dello Stato peruviano

I.2.1 La questione migratoria come issue centrale nelle politiche statali

L’importanza di studiare e comprendere le linee generali della politica migratoria dello Stato peruviano rientra nella consapevolezza che gli Stati di origine dei migranti svolgono un ruolo chiave nei processi migratori, nei processi di integrazione e nello sviluppo di pratiche transnazionali (Østergaard-Nielsen, 2003).

La nascita di una questione migratoria, come issue centrale nelle politiche pubbliche dello Stato peruviano, è relativamente recente e coincide con il periodo di esplosione dell’emigrazione. Fino agli anni novanta, infatti, non vi era il minimo interesse da parte delle istituzioni alla questione migratoria, ritenuta probabilmente meno rilevante dei temi legati al terrorismo interno e alla stabilità economica.

La prima iniziativa degna di rilevanza risale al 1997, quando il Dipartimento di Sostegno e Protezione del Cittadino, una sezione dell’Ufficio Affari Consolari del Ministero degli Esteri, promosse alcune iniziative bilaterali per regolamentare l’immigrazione in Argentina, per regolarizzare alcuni migranti peruviani in Giappone e per facilitare la concessione di visti di studio per i migranti verso la Bolivia (Berg e Tamagno, 2006; p.260).

Negli anni successivi, con l’aumento significativo dei peruviani che lasciavano il paese, la questione si impose in maniera più decisa e durante la presidenza di Alejandro Toledo (2001-2006) il tema divenne centrale sia durante la campagna elettorale che durante il suo mandato, con l’avvio di una serie di significative riforme e la scelta di intraprendere una politica migratoria coerente con la nuova situazione. I motivi di tale svolta sono da ricercarsi senza dubbio negli effetti economici e politici di un’improvvisa crescita del numero di persone che lasciavano il paese. I primi fanno riferimento innanzitutto alla questione delle rimesse: basti pensare che le rimesse inviate dai peruviani nel mondo sono passate, dal 2001 al 2006, da 930 milioni di dollari a 2.689 milioni di dollari, con un relativo aumento dell’influenza sul PIL nazionale dal 1,3% al 2,0%[10].

Gli effetti politici sono essenzialmente riconducibili al tema del voto all’estero sia da un punto di vista quantitativo che, potremmo dire, qualitativo. L’aumento esponenziale dell’emigrazione ha portato, come è ovvio, a un aumento proporzionale dell’elettorato all’estero e a un’indiscussa centralità del relativo comportamento di voto, rivelatosi quasi decisivo, per la prima volta, proprio nelle elezioni presidenziali del 2001. In Perú i cittadini residenti all’estero hanno diritto di voto per le elezioni presidenziali e per il rinnovo dei membri del Congresso, così come stabilito dalla Legge Organica delle Elezioni n. 26859. L’articolo 21 di tale legge stabilisce che “gli elettori residenti all’estero sono considerati dentro il Distretto Elettorale di Lima”. Non esiste pertanto, fino a questo momento, una rappresentanza politica ad hoc per i peruviani all’estero e il loro voto confluisce, e si “disperde”, in quello del distretto elettorale della capitale.

La retorica del “Quinto Suyo”, ampiamente utilizzata dal Governo Toledo, mise per la prima volta in luce la dimensione numerica ed economica dell’emigrazione peruviana. L’Impero Inca (Tawantisuyu) fu preso come modello di efficienza da imitare, nell’amministrazione di uno Stato disperso e frammentato, il cui popolo viveva ormai in ogni angolo del mondo[11].

Nel 2001 è stato creato il Sottosegretariato delle Comunità Peruviane all’Estero, presso il Ministero degli Affari Esteri, nato con l’obiettivo di fornire assistenza legale e umanitaria sia ai connazionali nel mondo, sia alle loro famiglie rimaste in patria[12]. Tra gli obiettivi principali di questo nuovo organo c’è quello di creare un canale permanente di comunicazione e coordinamento tra le comunità peruviane nel mondo e lo Stato peruviano, nonché quello di promuovere le politiche migratorie adatte a difendere l’interesse nazionale e quello del migrante. Per rendere effettivi parte di questi obiettivi si annunciava inoltre la nascita dei Consejos de Consulta come organizzazioni autonome di supporto all’attività consolare ed espressione diretta delle comunità peruviane nel mondo[13]. Alcuni forti elementi di crisi tra lo Stato peruviano e le comunità all’estero, però, sono recentemente emersi intorno a tale questione; nel paragrafo successivo vedremo brevemente l’evoluzione e le problematiche legate a tali organi.

Tra le ultime rilevanti iniziative in materia migratoria, messe in atto dal Governo di Toledo, merita accennare anche alla Ley de incentivos migratorios del 2005. Tali norme sono state adottate con lo scopo di facilitare e incentivare il rientro di connazionali professionalizzati in Perú e arginare, in qualche modo, l’emorragia di peruviani che in quegli anni subiva un’accelerazione senza precedenti[14]. La legge prevede una serie di sgravi fiscali doganali per il rientro di capitale, sia in denaro sia sottoforma di strumenti professionali e macchinari da lavoro, al fine di incentivare gli investimenti e il reinserimento lavorativo degli emigrati. Tale pacchetto di norme si rivolge ai peruviani che sono all’estero da almeno 5 anni, i quali devono presentare un’istanza scritta in cui dichiarano la volontà di rientrare in Perú e di volersi avvalere della cosiddetta legge sul ritorno.

In realtà, secondo quanto affermato dallo stesso Sottosegretariato delle Comunità Peruviane nel Mondo tali norme si sono rivelate abbastanza inutili, se si pensa che dall’entrata in vigore della legge fino a oggi sono rientrate solo 130 persone che si sono avvalse delle norme in questione, di contro all’uscita di oltre mezzo milione di persone[15].

I.2.2 I Consejos de Consulta tra partecipazione e deficit democratico.

I Consejos de Consulta, nati per soddisfare la domanda partecipativa e associativa delle comunità peruviane nel mondo, non fanno parte dello Stato peruviano, ma si pongono come realtà di collegamento tra gli Uffici consolari e i cittadini migranti.

Nel novembre del 2002 iniziarono a essere creati ed eletti i primi Consejos de Consulta e attualmente ne sono in funzione 96, presenti nelle circoscrizioni consolari del mondo dove la presenza peruviana è più consistente[16]. Dal 2005, inoltre, ogni anno si svolge una Conferenza mondiale dei Consejos de Consulta alla quale prendono parte anche rappresentanti del Governo centrale e del Ministero degli Esteri. Alla prima di queste conferenze, svoltasi nel settembre del 2005 in New Jersey negli Stati Uniti, presero parte 17 Consejos de Consulta, di cui 11 americani e 6 di altre parti del mondo. L’anno seguente, nella conferenza di Barcellona in Spagna, si riunirono 10 Consejos de Consulta insieme a 9 delegazioni di associazioni internazionali coinvolte nella protezione del migrante peruviano. La conferenza del 2007 si è svolta invece a Lima e ha visto la partecipazione di ben 25 Consejos de Consulta e di 21 associazioni e istituzioni legate all’emigrazione dei peruviani.

L’utilità di questi incontri annuali, in crescita negli ultimi due anni, è quella di elaborare richieste di policy specifiche alle Autorità di Governo, nonché sollecitare e vigilare sull’attuazione delle norme già messe in campo per la tutela delle comunità peruviane nel mondo.

La realtà degli ultimi mesi, però, ha messo in evidenza come la creazione dei Consejos abbia rivelato tutto il potenziale di conflitto tra comunità peruviane nel mondo e Governo di Lima, probabilmente preoccupato da un eccessivo potere e autonomia di tali organi consultivi.

Nel corso della III Conferenza Internazionale dei Consejos de Consulta nel 2007 era emersa, ad esempio, l’esigenza di modificare il Regolamento che organizza e stabilisce il funzionamento degli stessi Consejos per garantire maggiore rappresentatività, maggiore partecipazione e regole di funzionamento più democratiche. Il problema è scoppiato proprio tra il 2007 e il 2008 laddove alcuni Presidenti dei Consejos sono entrati in conflitto aperto con i Consoli, talvolta tacciati di vero e proprio autoritarismo[17]. A Roma, ad esempio, dopo lo scioglimento del Consejo appena eletto non si è riusciti ad eleggere un nuovo organo e le conflittualità interne alla comunità e quelle tra questa e il Consolato hanno prodotto la vacanza del Consejo, che dura a tutt’oggi.

L’ultimo atto di questa vera e propria battaglia tra comunità all’estero e Stato Peruviano è andato in scena nel mese di dicembre del 2008 quando, a sorpresa, il Governo ha modificato con un colpo di mano il Regolamento dei Consejos de Consulta, suscitando aspre critiche nei confronti della gestione migratoria del Partido Aprista.

La Risoluzione Ministeriale 1414/2008/RE, infatti, firmata dal Ministero degli Esteri Antonio Garcia Belaunde ha derogato le precedenti risoluzioni che regolavano il funzionamento dei Consejos, oltre ad emanare le nuove “Linee guida per l’organizzazione delle Relazioni tra il Capo dell’Ufficio Consolare e i Consejos de Consulta”. Queste nuove linee guida modificano, tra le altre cose, i requisiti di eleggibilità (introducendo all’art.17 limiti a chi ha avuto precedenti penali o ha commesso reati politici) e fissano il limite massimo di esercizio della carica di membro del Consejo a soli dodici mesi (art.21).

Secondo le Comunità peruviane nel mondo, però, la maggiore gravità di tali risoluzioni, assolutamente non concordate con i Consejos, risiede nei più ristretti criteri di elezione dell’organo. L’art.12 delle Linee guida approvate stabilisce che all’elezione deve partecipare almeno il 5% degli aventi diritto al voto all’estero, residenti nel territorio circoscrizionale. Per fare un esempio, nelle prossime elezioni del Consejo de Consulta di Barcellona, in programma per il 25 gennaio 2009, dovranno partecipare almeno 2.500 cittadini, pena la vacanza dell’organo e la riconvocazione dei comizi dopo sei mesi. Passato questo lasso di tempo, qualora non si raggiungesse nuovamente il quorum, l’elezione del Consejo potrebbe essere indetta nuovamente solo previa richiesta di almeno il 3% dell’elettorato della circoscrizione (1.500 persone, nel caso di Barcellona).

La difficoltà di radunare tanti consensi, testimoniata anche dalla bassissima partecipazione elettorale di questi anni, ha scatenato l’ira delle comunità peruviane nel mondo, che non hanno esitato a riconoscere come antidemocratica e autoritaria tale scelta del Governo di Alan Garcìa e dei suoi ministri.

Il caso dei Consejos è solo un esempio dei rapporti critici tra Stato peruviano e comunità all’estero, e le critiche volte alla Politica migratoria peruviana restano molto forti.

Ciò che è stato riscontrato da molti analisti e studiosi è che di contro a tali importanti riforme, volte a strutturare per la prima volta la gestione migratoria dello Stato peruviano, non ci sia stato un adeguato finanziamento per portare avanti le nuove istituzioni. I membri dei vari Consejos de Consulta rimangono ancora coinvolti a titolo gratuito e volontario. Anche il ruolo svolto dal Sottosegretariato delle Comunità Peruviane all’Estero appare tutt’oggi per molti assolutamente insufficiente e inadeguato a proteggere e garantire i diritti di quasi tre milioni di peruviani nel mondo.

Le iniziative degli ultimi governi del Perú confermano sostanzialmente quanto osservato da alcuni studiosi dei fenomeni transnazionali, circa gli interessi degli Stati di origine che sono alla base delle loro policies[18]. Appare chiaro che vi sia un duplice indirizzo delle politiche adottate dai Governi di Lima: da un lato c’è l’indirizzo prettamente economico, legato all’importanza ormai vitale delle rimesse per l’economia statale e alla possibilità di rientro di capitale umano specializzato da poter impiegare per far fronte all’emorragia di personale professionalizzato degli ultimi anni. Dall’altro si dichiara la necessità di garantire una rappresentanza politica autonoma del “Quinto Suyo”, rafforzando e controllando il ruolo dei Consejos de Consulta e ipotizzando una rappresentanza ad hoc in Parlamento per i peruviani nel mondo, sul modello italiano. È questo l’indirizzo di alcuni progetti di legge attualmente in discussione nelle competenti commissioni del Congresso: in sostanza si propone di modificare l’art.21 della Legge Organica delle Elezioni n.26859, introducendo un numero di parlamentari eletti solamente dai peruviani nel mondo, sul modello della Circoscrizione Estero introdotta in Italia con la Legge Cost. n.1/2001[19]. L’attuale Presidente Alan Garcìa ha promesso l’approvazione di tale riforma nell’arco del suo mandato presidenziale.

La volontà di garantire la rappresentanza politica dei peruviani nel mondo è emersa solo negli ultimi anni, quando i responsabili di Governo per le questioni migratorie si sono resi conto che l’elevato numero di connazionali all’estero, oltre a rappresentare un importante serbatoio elettorale, imponeva una serie riflessione sugli strumenti e sugli spazi politici da creare per la loro rappresentanza e per la loro partecipazione e, ovviamente, per il loro controllo. Nonostante ciò il primo indirizzo, quello economico, appare ancora come il più seguito e il più rilevante: dall’analisi di alcune recenti politiche del Governo in tema di emigrazione, che illustreremo tra breve, emerge chiaramente un’attenzione speciale alle questioni legate alle rimesse, agli investimenti in patria e al ritorno di capitale umano specializzato. Prima, però, conviene spendere alcune parole sulle istituzioni coinvolte ai vari livelli nella gestione migratoria e sulla ripartizione delle competenze tra loro.

I.2.3 Le istituzioni coinvolte e lo schema delle competenze.

La gestione migratoria dei peruviani all’estero è competenza, come spesso accade, di una pluralità di istituzioni che dovrebbero coordinare i loro sforzi e le loro azioni. In Perú non esiste un singolo Ministero che curi gli interessi dei peruviani all’estero e la maggior parte delle competenze sono suddivise tra tre principali attori: il Ministero dell’Interno e in particolare la DIGEMIN; il Ministero degli Esteri, competente ovviamente dei Servizi Consolari e presso cui è incardinato il Sottosegretariato delle Comunità Peruviane all’Estero, massimo organo governativo nella gestione e nella tutela degli interessi dei connazionali nel mondo; il Jurado Nacional de Elecciones (JNE), organo competente per l’organizzazione e l’amministrazione elettorale, anche del voto all’estero.

La DIGEMIN è l’ufficio competente per il controllo dei flussi migratori in entrata e in uscita, nonché della concessione dei passaporti e dei visti d’uscita e di ingresso. Negli ultimi anni l’attività di questo ufficio si è concentrata sul problema della quantificazione dei peruviani nel mondo e, per la prima volta, sono stati condotti studi e ricerche approfondite con l’intento di quantificare l’esodo e di delineare le caratteristiche sociodemografiche dei connazionali nel mondo. La totale assenza di un registro anagrafico, come già accennato, ha reso tale compito particolarmente difficile. L’unica strada che si è potuta seguire, nella costruzione di tali stime, è stata quella di considerare l’emissione delle Tarjetas Andinas de Migraciòn, il documento ufficiale che ogni peruviano che esce dal paese deve consegnare ai posti di frontiera terrestre, portuale o aeroportuale. Calcolando il numero di quelle emesse, cui non ha fatto riscontro un rientro, la DIGEMIN elabora attualmente una stima dei flussi migratori in uscita dal Paese[20].

La Creazione della Sub-Secretarìa nel 2001, invece, presso il Ministero degli Esteri, ha rappresentato un momento di svolta importante nella gestione migratoria dello Stato Peruviano. La tutela dei peruviani nel mondo, in quell’anno, «ha smesso di essere un atto puramente amministrativo-consolare e ha cominciato a mirare maggiormente alla persona, alla storia del migrante e ai suoi bisogni non solo amministrativi»[21]. Tale Ufficio è, dunque, incaricato di elaborare le politiche migratorie del Governo Peruviano ed è in stretto contatto con la Cancelleria del Presidente. L’attuale Sub-Secretario in carica, Marco Nuñez Melgar Maguiña, è dunque il principale esponente del Governo responsabile delle politiche migratorie e di protezione delle comunità all’estero. È, di conseguenza, il destinatario delle principali critiche da parte del mondo accademico e delle associazioni che denunciano una vera e propria assenza di politiche migratorie adeguate nell’agenda del Governo peruviano.

Per quanto riguarda la gestione e l’organizzazione del voto all’estero, è il JNE l’istituzione che, secondo la Costituzione del Perú, ha il dovere di amministrare i processi elettorali. Contrariamente a quanto avviene in molti sistemi politici europei, dove storicamente la fiducia nei Governi è maggiore, nei sistemi sudamericani tale delicata funzione è spesso affidata ad appositi organismi indipendenti dal Governo, nella speranza di garantire una maggiore trasparenza e sicurezza del procedimento elettorale. Tale Istituto, dunque, organizza, segue e amministra l’intero processo elettorale in Perú e all’estero, insieme all’aiuto della rete consolare. I peruviani nel mondo sono obbligati a partecipare alle elezioni presentandosi presso il Consolato in cui sono registrati ed esprimendo il voto presso i seggi allestiti. La norma che permette l’esercizio del diritto di voto all’estero è contenuta nella Costituzione del 1993, ma tale diritto era riconosciuto e garantito già dalla Costituzione del 1979.

L’obbligatorietà del voto, considerata uno dei capisaldi nella Costituzione repubblicana, era accompagnata, fino al 2006, dal pagamento di una multa di 40 dollari americani nel caso non fosse stata rispettata. Da due anni questa multa è stata abrogata proprio per un’iniziativa legislativa promossa dal Jurado Nacional de Elecciones: il sommarsi delle multe da pagare, nel caso non si fosse votato per più di un’elezione, infatti, aveva creato un meccanismo perverso di astensionismo, in particolare all’estero. Dopo almeno due volte in cui non si aveva votato, era molto difficile che il cittadino si ripresentasse nuovamente al Consolato per evitare di incorrere nel pagamento della multa. Lo scopo di questa importante riforma è stato proprio quello di facilitare il più possibile la partecipazione politico-elettorale delle comunità peruviane nel mondo.

Il Jurado Nacional de Elecciones, dunque, non appare una mera istituzione amministrativa ma, pur non esprimendo alcun indirizzo politico, svolge una rilevante funzione di iniziativa legislativa circa i temi del voto all’estero e della partecipazione politica, di concerto con le comunità peruviane nel mondo.[22] La più importante di queste iniziative è quella che ha dato vita ai progetti di legge n. 579/2006-PE, 611/2006-PE e 576/2006-PE, attualmente in discussione nelle competenti commissioni del Congresso peruviano e che propongono di modificare l’art.21 della Legge Organica delle Elezioni n.26859, introducendo una rappresentanza parlamentare ad hoc per i peruviani nel mondo. Il ruolo del JNE, nella fase di elaborazione della proposta nonché negli studi e nelle simulazioni condotte, è stato centrale e il modello adottato dal Parlamento italiano tra il 2001 ed il 2003 ha rappresentato uno spunto fondamentale per la formulazione della proposta.[23]

I.2.4 Dal Governo Toledo (2001-2006) al Governo Garcìa (2006-oggi): i principali punti dell’attuale politica migratoria dello Stato peruviano

Le elezioni del 2006 hanno visto il ritorno al Palazzo di Governo di una vecchia conoscenza del popolo peruviano, Alan Garcìa, le cui malefatte e l’odore di corruzione che avevano infangato la sua precedente esperienza di Governo tra il 1985 e il 1990 sembrano già state dimenticate.

Proprio la tornata elettorale del 2006 ha rivelato tutto il potenziale politico di un corpo elettorale all’estero ormai triplicato: al primo turno elettorale, infatti, Garcìa, candidato del Partido Aprista, si è imposto sulla candidata di Unidad Nacional, Lourdes Flores, per uno scarto dello 0,5% di maggioranza relativa. I peruviani che potevano votare dall’estero, con una quota di elettori di 457.891 unità, rappresentavano il 2,7% dell’elettorato nazionale (16.494.906 il totale di iscritti nelle liste). Nonostante i suoi ripetuti appelli ai peruviani nel mondo, la candidata Lourdes Flores non riuscì a ribaltare la situazione nel secondo turno di ballottaggio e Alan Garcìa ha così assunto il suo secondo mandato presidenziale, consapevole del discreto peso politico degli emigrati che si cela dietro la sua vittoria.

I.2.5 Le “sette politiche” migratorie del Governo peruviano

La politica migratoria dell’attuale Governo in carica è strutturata in sette principali aree di intervento all’interno delle quali sono individuati i rispettivi campi di azione. Mai nella storia politica del Perú vi era stata una simile organizzazione e classificazione delle politiche pubbliche in tema migratorio. La realtà dimostra, però, che ciò che è stato realmente eseguito è una minima parte di quanto enfaticamente dichiarato sulla carta, soprattutto per la inadeguatezza dei relativi finanziamenti.

Le “sette politiche”, o meglio le aree in cui è suddivisa la politica migratoria, sono:

I) Politica di Riforma e di miglioramento dei Servizi Consolari;

II) Politica di protezione legale dei migranti:

a. Tutela dei diritti conformemente alle leggi dello Stato di destinazione

b. Informazione e Assistenza sui diritti garantiti nello Stato di destinazione

III) Politica di Assistenza umanitaria;

IV) Politica di sostegno all’inserimento produttivo, legale e rispettoso dei diritti umani, dei

peruviani nelle società di destinazione;

V) Politica di promozione del vincolo culturale e nazionale:

a. Incentivo e Sviluppo del vincolo nazionale con il Perú

b. Continuazione del Programma Educativo Peruviano

VI) Politica di “vincolamento” dei peruviani con il Perú, da una prospettiva produttiva:

a. Incentivo e Sicurezze delle rimesse

b. Incentivo all’investimento delle rimesse

c. Appoggio al ritorno volontario

VII) Politica di promozione dell’esercizio della cittadinanza e della partecipazione democratica

dei peruviani all’estero

a. Partecipazione alla vita politica nazionale

b. Partecipazione alla vita sociale delle società di residenza all’estero

c. Interazione democratica con le Autorità consolari

Dando uno sguardo alla complessa organizzazione delle politiche migratorie e a ciò che effettivamente si sta realizzando, emerge un gap non trascurabile. Se la normativa sul ritorno appare sostanzialmente fallita, le altre politiche non sembrano particolarmente implementate, fatta eccezione di quelle relative alle rimesse e agli investimenti dall’estero da un lato, e quelle relative alla partecipazione politica e democratica dei peruviani nel mondo.

Ciò che è chiaro e che il Perú si configura ancora perfettamente come un labor exporting country, secondo la tripartizione di sending countries proposta da Eva Østergaard-Nielsen (2003 p. 7): a differenza però di molti atri casi non esistono molti accordi bilaterali in tema di lavoro stipulati dal Governo peruviano anche se “l’esportazione”di forza lavoro, più o meno incentivata, rimane una caratteristica di questo caso.

Sul tema degli investimenti dall’estero e delle rimesse merita di essere citata l’importante iniziativa del Presidente Garcìa sulla possibilità di assicurare le rimesse inviate e sulla creazione di un Fondo di Assicurazione per gli emigrati. Questi infatti, insieme alle loro famiglie rimaste in patria, possono essere assicurati grazie al “Fondo de Solidaridad a favor de los Peruanos en el Exterior” e al “Seguro de Remesas del Exterior” che garantisce la possibilità di stipulare una polizza assicurativa all’emigrato e ai membri della sua famiglia al prezzo di 5/9 dollari americani al mese. In caso di decesso all’estero del connazionale, la sua famiglia continuerà a ricevere per 36 mesi la stessa quantità inviata in rimesse dal familiare emigrante, nonché una quota per il pagamento dei consumi di acqua, luce e gas. Nel caso di morte di un familiare dell’emigrato residente in Perú, invece, il programma copre le spese aeree di andata e ritorno dell’emigrato, nonché le spese per il funerale.

Ultimamente, inoltre, c’è da segnalare una accresciuta attenzione del mondo politico nei confronti delle rimesse degli emigrati anche come aiuto concreto a combattere la povertà di alcune zone rurali del paese. Rimesse e co-sviluppo, infatti, è diventato un tema di eccezionale attualità in Perú e sono allo studio anche forme di microcredito garantite proprio dal flusso di rimesse inviato dall’estero[24].

Sotto il secondo profilo, invece, l’attenzione è rivolta soprattutto all’approvazione della riforma del voto all’estero di cui abbiamo accennato e alla modifica dei Regolamenti per i Consejos de Consulta per i quali, però, il problema più grave rimane la carenza, o sarebbe meglio dire l’assenza, di fondi stanziati.

Per quanto riguarda il rafforzamento del vincolo culturale e nazionale con lo Stato Peruviano merita citare l’iniziativa del 2006 del Presidente Garcìa, una delle prime del suo mandato, con la quale ha istituto il 18 ottobre di ogni anno il “giorno del peruviano all’estero”[25]. Una sorta di celebrazione nazionale e internazionale per ricordare il valore e il sacrificio dei milioni di peruviani emigrati, in occasione della quale lo Stato peruviano premia gli emigrati che si sono distinti per qualche merito. A tal fine è stata istituita anche una Commissione Speciale presso il Ministero degli esteri presieduta dal Segretario Generale degli Affari Esteri e integrata dal Sottosegretario per le Comunità peruviane all’estero, che ha il compito di ricevere la rosa di nomi di candidati al premio annuale presentata dai Consejos de Consulta nel mondo. L’ufficialità di tale procedura, nonché l’importanza che sta assumendo anno dopo anno questa nuova festività del calendario nazionale, confermano una chiara volontà dell’attuale Governo di aumentare i vincoli tra migranti e istituzioni statali, con l’obiettivo di rafforzare i benefici economici derivanti dalle rimesse e di sostenere una fedeltà politica che può rivelarsi utile e decisiva nel momento elettorale.

I.3 La comunità peruviana in Italia: i casi di Roma e Torino.

I.3.1 La comunità peruviana in Italia.

Nei precedenti capitoli è emerso come l’Italia rappresenti una delle mete privilegiate dai migranti peruviani nel mondo. Secondo le stime dell’OIM, infatti, tra il 1990 e il 2007, 199.557 peruviani hanno lasciato il paese alla volta dell’Italia senza fare più ritorno. Il nostro paese occupa il quarto posto nella classifica delle destinazioni dell’immigrazione peruviana, dopo gli Stati Uniti, l’Argentina, e la Spagna. Questo dato, seppure utile per un confronto, ci dice poco però sulla reale presenza di peruviani nel nostro paese per vari motivi: innanzitutto non considera le partenze antecedenti il 1990, inoltre non dice nulla sul numero dei nati all’estero e, soprattutto, non tiene conto degli spostamenti da un paese di destinazione ad un altro. Aldilà di questo, è cosa certa che l’Italia occupi il secondo posto in Europa, dopo la Spagna, tra le mete preferite dall’immigrazione peruviana. In questa sezione cercheremo di focalizzare maggiormente l’attenzione su alcune caratteristiche della presenza peruviana in Italia, partendo da una definizione numerica. Terremo in considerazione sia il caso italiano nel suo complesso, sia le città di Roma e Torino, prese come studio di caso in questo lavoro.

Per conoscere con precisione il numero di cittadini peruviani in Italia, e confrontarlo con la cifra stimata dall’OIM delle uscite verso il nostro paese, è necessario considerare soltanto il numero dei residenti regolari, tralasciando la quota degli irregolari dei quali sarebbe possibile solo avere una stima[26].

Le fonti che utilizziamo per questa operazione sono i dati dell’ISTAT da un lato, e i dati in possesso delle singole Amministrazioni comunali per quanto riguarda le città di Roma e Torino. L’Ambasciata del Perú in Italia non possiede invece alcun dato certo della presenza peruviana sul territorio italiano, poiché manca un registro anagrafico dei residenti peruviani all’estero. Anche in questo caso è possibile solo effettuare delle stime, piuttosto relative e scarsamente utilizzabili scientificamente[27].

Come abbiamo segnalato nel primo capitolo, tra il 2000 e il 2007, l’emigrazione peruviana ha subito un incremento senza precedenti con una media annua di uscite dal paese che sfiorava quota 176.000. I dati ISTAT sulla popolazione straniera residente fotografano perfettamente tale tendenza. Tra il 2002 e il 2007 la popolazione peruviana regolarmente residente in Italia è aumentata del 106%. L’incremento annuo maggiore si è registrato tra il 2003 e il 2004 quando la quota di peruviani in Italia è passata da 43.009 a 53.378 unità. A partire dal 2005 gli aumenti annui sono continuati ma in misura più contenuta. Secondo i dati presentati lo scorso ottobre 2008, la popolazione peruviana residente in Italia al 31/12/2007 ammontava a 70.755 unità.

Fino al 2004, peraltro, i peruviani rappresentavano la prima comunità immigrata sudamericana presente sul nostro territorio; dal censimento del 2005 tale primato spetta agli ecuadoriani. La tabella n. 1 mostra l’evoluzione della presenza peruviana in Italia negli ultimi cinque anni.

Tab. n. 1 – Popolazione peruviana residente in Italia, per sesso (2002-2006)

| | | | | |

|Anno |Maschi |Femmine |Totale |Variazione |

|2002 |12.500 |21.707 |34.207 | - |

|2003 |15.824 |27.185 |43.009 |+ 8.802 |

|2004 |19.908 |33.470 |53.378 |+10.369 |

|2005 |22.625 |38.183 |61.953 |+ 8.575 |

|2006 |25.884 |40.622 |66.506 |+ 4.913 |

|2007 |27.809 |42.946 |70.755 |+ 4.249 |

Fonte: elaborazione su dati ISTAT

C’è un aspetto sul quale il caso italiano si discosta fortemente dalle tendenze generali cui abbiamo accennato in coda al primo capitolo di questo lavoro.

A livello mondiale l’equilibrio tra generi è abbastanza forte ma, nel caso italiano, c’è una fortissima predominanza della componente femminile. Nel 2004 le donne peruviane sono oltre il doppio degli uomini; lo scarto si è leggermente ridotto tra il 2006 e il 2007 grazie anche ai ricongiungimenti familiari, anche se la prevalenza del genere femminile rimane una caratteristica dell’immigrazione peruviana in Italia. I dati dell’OIM sui flussi in uscita dal Perú, disaggregati per Stato di destinazione, dimostrano chiaramente come soltanto Germania, Francia e Italia attirino una prevalenza femminile dell’immigrazione peruviana, mentre Spagna e Stati Uniti, ad esempio, vedono un maggiore equilibrio di genere[28]. Tali differenze sono legate intuitivamente ai differenti percorsi di inserimento professionale nei vari paesi di destinazione e possiamo ragionevolmente ipotizzare che dipendano dall’alta richiesta di lavoro domestico, nonché di professioni infermieristiche, che caratterizza il nostro paese.

Se si confronta il dato di genere disaggregato per paese con quello occupazionale disaggregato per genere, emerge che il 20,1% delle donne emigrate nel mondo tra il 1995 ed il 2005 ha dichiarato ai posti di frontiera di essere occupata come casalinga, il 26,7% di essere studente, il 10,4% di essere una professionista (insegnanti, avvocati, medici, ingegneri, architetti etc.), l’8,5% di essere una scienziata, ricercatrice o intellettuale; il 4,5% ha dichiarato di essere tecnica e professionista di ambito scientifico. Per quanto riguarda la componente maschile, il 29,8% è rappresentato da studenti, il 16,2% da impiegati d’ufficio, il 13,9% da venditori e commercianti e solo il 10,3% da appartenenti a ordini professionali, scienziati o intellettuali.[29]

Questi dati, visti alla luce del caso italiano dove la maggior parte delle donne peruviane è impiegata nelle faccende domestiche o in piccole attività commerciali in proprio o alle dipendenze, fa emergere uno degli aspetti sociali più allarmanti dell’ultima ondata migratoria dal Perú; la fuga di intellettuali e professionisti, in grande prevalenza donne, rappresenta un problema sociale di notevole rilevanza soprattutto per la società dello Stato di provenienza, che viene privata di una componente importante del mercato del lavoro e della società nel suo complesso. Lo stato ricevente, in questo caso l’Italia, non è sempre in grado di assimilare e integrare nel mondo del lavoro tale personale specializzato sia per la struttura complessa del mercato del lavoro, sia per una legislazione poco favorevole agli stranieri, sia per la maggiore offerta in altri settori d’impiego. Il risultato è che molti immigrati, soprattutto donne, con un curriculum e un expertise di tutto rispetto si ritrovino a svolgere lavori sotto qualificati.

I.3.2 Peruviani a Roma e Torino, nei dati dell’ISTAT e delle Amministrazioni Comunali: numero, genere ed età

Vediamo ora nel dettaglio alcune caratteristiche della presenza peruviana nelle città di Roma e Torino utilizzando le fonti italiane dell’Istat e delle due Amministrazioni comunali. Nel capitolo successivo confronteremo poi i risultati della nostra indagine empirica con i dati ufficiali qui di seguito presentati.

La comunità di Roma, numericamente molto consistente, sconta la dispersione sul territorio tra Provincia e città mentre quella torinese, la più giovane, offre caratteri di dinamicità assolutamente interessanti che affronteremo meglio anche nella parte dedicata alla partecipazione elettorale per le elezioni peruviane. Consideriamo i due casi insieme per offrire la possibilità di un rapido confronto, cercando inoltre di apprezzare le variazioni del numero di peruviani con le variazioni del numero totale di stranieri residenti nelle città di nostro interesse.

Le tabelle n. 2 e n. 3 offrono una panoramica della variazione, tra il 2005 ed il 2007, di residenti stranieri e residenti peruviani nelle città di Roma e Torino:

Tab. n.2 – Residenti stranieri e residenti peruviani a Torino (2002-2007)

| |Totale residenti |Totale residenti |% peruviani su residenti|

|Anno |stranieri [30] |peruviani |stranieri |

|2002 |40.633 |- |- |

|2003 |55.500 |4.362 |7,8% |

|2004 |69.312 |5.009 |7,2% |

|2005 |76.807 |5.502 |7,1% |

|2006 |83.977 |5.968 |7,7% |

|2007 |102.921 |6.301 |6,1% |

|Variazione |+ 165% |+ 45% |- 1,7% |

|2002-2007 | | | |

Fonte: Elaborazione su dati ISTAT

Tab. n.3 – Residenti stranieri e residenti peruviani a Roma (2002-2007).

| |Totale residenti |Totale residenti |% peruviani su residenti|

|Anno |stranieri[31] |peruviani |stranieri |

|2002 |107.606 | | |

|2003 |122.758 |5.647 |4,6% |

|2004 |145.004 |6.503 |4,4% |

|2005 |156.833 |6.897 |4,3% |

|2006 |199.417 |9.235 |4,6% |

|2007 |218.426 |9.501 |4,3% |

|Variazioni | + 103% |+ 68% |- 0,3% |

|2002-2007 | | | |

Fonte: Elaborazione su dati ISTAT

Un primo dato su cui ragionare è certamente l’aumento consistente degli stranieri residenti nella città di Torino rispetto al dato di Roma. Tra il 2002 e il 2007 l’aumento di stranieri residenti nel capoluogo piemontese è stato del 165% con un incremento di 67.257 presenze. La quota di peruviani sul totale degli stranieri, assolutamente non maggioritaria, si è tenuta però sostanzialmente costante con un lieve aumento nel 2006, anno di eccezionali partenze dal Perú e un lieve calo nel corso del 2007, dovuto soprattutto all’aumento di altre comunità, tra cui quella rumena. Nella città di Roma l’aumento degli stranieri residenti, tra il 2002 e il 2007, è stato di circa il 103% con un incremento di 110.820 presenze.

Se dunque a Roma gli stranieri sono aumentati maggiormente in valore assoluto, il dato percentuale fa emergere la specificità e la rilevanza del contesto torinese in uno studio sull’immigrazione. D’altro canto, se è vero che a Torino è aumentato maggiormente il numero generale di immigrati, va anche detto che una quota superiore di peruviani, negli ultimi anni, ha scelto la Capitale, dove l’aumento percentuale è stato del 68% rispetto al 45% del capoluogo piemontese.

Gli ultimi dati disponibili dell’Ufficio Stranieri del Comune di Torino differiscono appena dai dati ISTAT. Secondo l’Amministrazione piemontese, infatti, alla data del 3 dicembre 2007 risultavano residenti a Torino 106.176 stranieri, di cui 60.595 extra Unione Europea e 45.211 dell’Unione Europea. C’è accordo invece sul numero dei peruviani residenti (6.312) di cui 3.861 maschi e 2.451 femmine. Il grafico n.1 riassume la composizione di genere della comunità peruviana a Torino, evidenziando, ancora una volta, la predominanza della componente femminile, caratteristica costante della comunità peruviana in Italia. Il grafico n.2 mostra la variazione della composizione di genere della comunità peruviana a Torino tra il 2004 e il 2007, evidenziando la crescita proporzionale, anno dopo anno, dei peruviani residenti.

Grafico n.1 – Composizione di genere della comunità peruviana a Torino (dicembre 2007).

[pic]

Fonte: Ufficio Stranieri, Città di Torino (dicembre 2007)

Grafico n.2 - Composizione di genere della comunità peruviana a Torino, variazione 2004-2007.

[pic]Fonte: Ufficio Stranieri, Città di Torino

Per quanto riguarda la composizione generazionale dell’immigrazione peruviana a Torino c’è da riscontrare una prevalenza delle fasce d’età più giovani ma pur sempre maggiorenni, senza significative differenze tra maschi e femmine. Dei 6.312 peruviani censiti dal Comune, 1.850 sono i maschi maggiorenni, 601 i maschi minorenni, 3.172 le donne maggiorenni e 689 le donne minorenni. Questo dato suggerisce già che il 79,6% della comunità peruviana è maggiorenne ed è titolare, ad esempio, di diritto di voto all’estero. La fascia d’età più cospicua è rappresentata dai peruviani che hanno tra i 26 e i 45 anni.

Per quanto riguarda la città di Roma, i dati dell’Ufficio Stranieri capitolino registravano 10.747 cittadini peruviani residenti in città, alla data del 31/12/2006, di cui 3.867 maschi (36,0%) e 6.880 femmine (64,0%), come riassunto nel grafico n.3.

Grafico n.3 – Composizione di genere della comunità peruviana a Roma (dicembre 2007)

[pic]

Fonte: Ufficio Statistica e Censimento, Comune di Roma.

Come si vede la composizione di genere è simile tra le città di Roma e Torino con una leggera predominanza della componente femminile nella capitale. Anche per le fasce generazionali non si riscontrano sostanziali differenze tra le due città, a parte una leggera maggioranza di maggiorenni nella capitale, dovuta probabilmente a una maggiore anzianità migratoria. Il 18,9% dei peruviani a Roma, infatti, è minorenne (2.029) e il restante 81,1% (8.718) è maggiorenne, e gode dunque del diritto di voto all’estero. La fascia d’età più rappresentata è ancora quella tra i 26 e i 45 anni.

I.3.3 Alcuni dati dei Consolati: provenienza, età, stato civile, livello di istruzione e occupazione.

In questo paragrafo tratteremo alcuni dati generali forniti dall’Ambasciata del Perú, circa il profilo della comunità peruviana in Italia. Non è possibile disaggregare le informazioni per le singole città di interesse in quanto i dati in possesso dei rispettivi Consolati sono frammentari e non risultano aggiornati.

Innanzitutto osserviamo che la maggioranza dei peruviani residenti in Italia (46%) proviene dalla provincia e dalla città di Lima mentre la parte restante si suddivide, quasi equamente, tra le altre province del Perú, con una predominanza delle Province di Huancayo (5%), Callao (4%), Arequipa e Huaral (3%), Cuzco e Trujillo (2%). Le altre Province rappresentano il restante 33%.

Questo dato potrebbe risultare ingannevole. La grandissima maggioranza dei peruviani che emigrano verso l’Italia, infatti, non è originario di Lima ma spesso è a sua volta emigrato da aree interne del paese alla volta della capitale, per poi decidere di emigrare all’estero e in Italia. «L’emigrazione internazionale peruviana, dunque, si configurerebbe, in larga parte, come la seconda tappa di un progetto migratorio più ampio prima interno e poi esterno.»[32]

Questa affermazione appare confermata se si analizza il profilo delle maggiori realtà associative dei peruviani in Italia, come vedremo fra breve. La maggior parte di esse, infatti, sono di ispirazione locale e regionale e tendono a raggruppare comunità omogenee originarie di stesse aree del paese, delle zone andine piuttosto che di quelle costiere, della capitale piuttosto che del nord o del sud del paese.

Come già accennato riguardo ai casi di Torino e Roma, la popolazione peruviana residente in Italia è relativamente giovane e in età di lavoro. Il 44% di questi hanno tra i 26 e i 45 anni, il 17% tra i 18 e i 25 anni (tra cui molti studenti universitari) e il 18% in età infantile (0-5 anni) e sono in maggioranza nati in Italia. Il restante 11% ha tra i 6 e i 17 anni, l’8% ha tra i 45 e i 59 anni e solo un 2% ha più di 60 anni[33]. È interessante osservare che il numero dei peruviani ultra 45enni è in crescita negli ultimi anni, a testimonianza di un crescente flusso migratorio di madri, padri, nonne e nonni, grazie ai processi di ricongiungimento familiare.

L’analisi dei dati relativi allo stato civile fa emergere un dato interessante: la grande maggioranza dei peruviani in Italia (78% circa) è celibe o nubile. Questo è senz’altro dovuto all’età relativamente giovane della popolazione migrante che generalmente intraprende il viaggio oltreoceano al termine degli studi secondari o universitari. Le persone vedove o divorziate rappresentano un numero molto esiguo (0,5%) così come relativamente basso il numero di celibi e nubili che hanno dichiarato di convivere con un connazionale in Italia (6% circa)[34].

Sul livello di istruzione, le informazioni fornite dall’Ambasciata del Perú confermano, sostanzialmente, quanto già detto in precedenza sui dati della ricerca OIM. L’occupazione svolta qui in Italia, nella maggior parte dei casi, non ha nulla a che vedere con il titolo di studio di cui si è in possesso. Circa il 38% dei peruviani residenti nel nostro paese, infatti, è in possesso di titoli di studi secondari e il 31% ha conseguito studi tecnici e professionali; solo il 2% dei peruviani che arrivano in Italia hanno un titolo di studio primario (licenza elementare) e gli analfabeti sarebbero meno dello 0,05%. Confrontando tali dati con le informazioni relative alle professioni svolte è evidente il gap esistente tra carriera professionale e titolo di studio. La grande maggioranza è occupata in servizi domestici e di pulizia (anche in piccole imprese), una buona quota in servizi di assistenza agli anziani, così come operai e magazzinieri. Si distaccano una quota minoritaria di autisti, infermiere e infermieri, commercianti in proprio e addetti alla gastronomia.

La questione degli infermieri è interessante e merita una piccola chiarificazione. Nel corso delle nostre ricerche in Perú è emerso più volte, anche nel corso di interviste con esponenti politici o del mondo accademico che si occupano di studi migratori, il tema delle professioni svolte dalle donne migranti verso l’Europa. È diffusa la convinzione che tutte le donne che partono alla volta dell’Italia e della Spagna siano poi impiegate come infermiere, forse anche a causa della scarsa accettazione sociale dei lavori domestici[35].

Infine, è in aumento il numero di peruviani che si iscrivono ai sindacati italiani sebbene non esistano ancora al momento dati ufficiali sugli iscritti immigrati disaggregati per nazionalità[36]. La tendenza a iscriversi a un sindacato è recente e interessa soprattutto gli operai che sono già piuttosto integrati nel nostro paese, e che sono arrivati qui negli anni novanta.

I. 3.4 Le Associazioni peruviane a Roma e Torino.

L’associazionismo è certamente una chiave di lettura interessante per conoscere il grado di mobilitazione e attivazione politica di un gruppo migrante, sia nel territorio di residenza sia verso lo Stato d’origine. Sotto il secondo profilo si tratta di capire se e quante associazioni promuovono, più o meno esplicitamente, attività politiche rivolte alla madrepatria, mentre sotto il primo profilo è importante studiare che tipo di interazioni esistono tra le realtà associative e le amministrazioni locali e in che misura le prime mobilitano e informano sulle vicende politiche italiane. L’analisi dei questionari, che svolgeremo nell’ultimo capitolo, ci aiuterà a trovare una risposta adeguata. In questo paragrafo delineeremo solo alcune caratteristiche generali dell’associazionismo peruviano così come lo abbiamo osservato nelle città di Roma e Torino.

L’associazionismo peruviano è un fenomeno non nuovo nel nostro paese ma certamente in grande espansione. Generalmente le associazioni sono nate e si sono aggregate intorno a una provenienza regionale o locale e con lo scopo di celebrare una festività o una ricorrenza religiosa. L’elemento religioso, infatti, è la caratteristica più importante del fenomeno associativo peruviano che spesso connota anche associazioni dichiaratamente sportive o culturali. Altre associazioni sono nate con lo scopo di promuovere la cultura peruviana e latinoamericana nel nostro paese, diffondendo la musica o le danze tipiche di una zona del paese d’origine. Lo scopo di tali gruppi è duplice: da un lato c’è l’intento di far conoscere e di promuovere la propria cultura in un paese straniero, dall’altro quello di preservare e mantenere vivi, tra i propri connazionali all’estero, i ricordi, gli usi e le abitudini del proprio paese.

La comunità peruviana in Italia, però, vista anche una certa anzianità migratoria, ha organizzato le proprie associazioni anche con un terzo scopo, emerso più di recente. Molte realtà associative, infatti, hanno il fine di diffondere e preservare la cultura del paese d’origine soprattutto tra le seconde generazioni, spesso nate in Italia e che talvolta non sono mai state in Perú. Questi giovani peruviani, non ancora giuridicamente italiani, hanno la possibilità di imparare lo spagnolo, conoscere il paese dei loro genitori e venire a conoscenza con ciò che accade a migliaia di chilometri di distanza anche se, a dire il vero, tale interesse è scarso e non duraturo.

Le associazioni nascono spontaneamente e la loro vita spesso è breve sia per problemi legati agli spazi dove organizzare le loro attività, sia per una forte rivalità che oppone appartenenze geografiche diverse. Aldilà della breve esistenza di molte associazioni, risulta difficile eseguire una catalogazione precisa nelle due città italiane di nostro interesse, a causa di una problematicità nelle fonti consultabili. I comuni, infatti, non sempre hanno degli archivi aggiornati e i consolati cercano di monitorare la situazione con enormi difficoltà visto che spesso i rapporti con le comunità sono conflittuali e non vi è alcun obbligo, da parte dei peruviani in Italia, di comunicare le loro attività associative ai consolati.

Questa premessa serve a poter affermare che le cifre diffuse dai consolati sono certamente una stima per difetto della realtà associativa reale. Il Consolato peruviano di Roma censisce 18 associazioni, quello di Torino 11, e 30 quello di Milano. In realtà le associazioni peruviane, così come quelle di molti altri immigrati, tendono ad avere più rapporti con l’Amministrazione locale sia per la registrazione e la costituzione, sia per la richiesta di eventuali spazi dove organizzare le loro attività. Anche perché è il quadro legislativo italiano che lo richiede. Il Comune di Torino, ad esempio, che dal 2006 si è dotato di uno speciale Assessorato per il Coordinamento delle Politiche per l’Integrazione, si occupa di tenere le relazioni con le associazioni di immigrati e, laddove è possibile, di fornire spazi e finanziamenti per le diverse attività proposte. Nel corso di questa operazione l’amministrazione piemontese sta compilando un registro delle associazioni immigrate e, al momento, risulterebbero presenti in città ben 32 associazioni peruviane[37]. Una delle più grandi, che riunisce oltre ai peruviani anche altri immigrati latinoamericani, si chiama America Latina ed è presieduta dall’attuale Presidente del Consejo de Consulta de los Peruanos en el extranjero della circoscrizione consolare Piemonte-Valle d’Aosta, Pilar Yenque.

L’esperienza torinese appare di assoluta rilevanza nel nostro studio, soprattutto sotto il profilo della partecipazione politica dei peruviani nel contesto di residenza; i rapporti tra rappresentanti delle associazioni peruviane e i responsabili del Settore Integrazione della Città di Torino, infatti, tendono da alcuni mesi a questa parte a diventare stabili e istituzionalizzati. In altre parole la political opportunity structure della realtà torinese appare piuttosto aperta e sembrerebbe favorire l’associazionismo e la partecipazione, nonostante il grosso limite dell’esclusione degli immigrati dalla partecipazione politico-elettorale a livello locale e nazionale.

La concessione di spazi privati dove organizzare le proprie attività o l’attrezzatura di spazi pubblici, dove incontrarsi per celebrare festività o ricorrenze, rappresenta una molla interessante per la mobilitazione di quella parte di peruviani che sono attivi all’interno di una delle 32 associazioni presenti in città[38] e un incentivo per quelli non ancora attivi.

La conflittualità tra le varie realtà associative giustifica in parte l’elevato numero di queste; il numero degli associati non è mai altissimo e spesso raggruppano poco più di 20 o 30 persone. Rispetto ad altri gruppi migranti, infatti, i peruviani non presentano una particolare propensione ad associarsi anche se, dall’analisi dei questionari, sarà possibile riscontrare qualche interessante differenza nelle due città considerate.

Nessuna associazione peruviana a Roma o a Torino si richiama, però, alla diffusione di informazioni politiche o all’attività politica in senso stretto ma sono quasi sempre finalizzate alla celebrazione di festività religiose o nazionali e all’organizzazione di feste o spettacoli rivolti ai propri connazionali.

Sembra possibile affermare, da una prima analisi, che le associazioni peruviane presenti a Roma e Torino non siano particolarmente rilevanti nell’influenzare la partecipazione politica verso la madrepatria.

I.3.5 La partecipazione politica dei peruviani in Italia: il voto all’estero del 2006

Concludiamo questo capitolo sui peruviani in Italia considerando brevemente alcune caratteristiche legate alla loro partecipazione come elettori all’estero. Come si ricorderà i cittadini peruviani emigrati possono esercitare il loro voto per le elezioni presidenziali presso seggi istituiti nei consolati all’estero o presso altri spazi concordati con le amministrazioni locali.

Le ultime elezioni in cui hanno votato anche i peruviani in Italia si sono svolte il 9 aprile 2006 ed hanno eletto il Governo del paese che resterà in carica fino al 2011. Oltre al Presidente della Repubblica sono stati eletti 2 Vice-Presidenti, 120 membri del Congresso e 5 rappresentanti del Parlamento Andino.

Dei 16.500.000 peruviani chiamati alle urne, quasi 458.000 hanno votato all’estero. In Italia sono stati allestiti 254 seggi elettorali di cui 113 a Milano, 68 a Roma, 32 a Torino, 13 a Genova; ogni seggio è stato istituito sulla base di circa 200 elettori.

Grafico n.4 – Elettori in Perú ed elettori all’estero, elezioni generali 2006.

[pic]

Fonte: JNE, Jurado Nacional de Elecciones

Ogni consolato si è impegnato a diffondere le informazioni necessarie a far conoscere ai propri connazionali le modalità e i luoghi delle votazioni mentre i negozi peruviani, i ristoranti e la stampa gratuita distribuita in lingua spagnola, sono stati i veicoli principali della campagna elettorale. L’impossibilità di eleggere rappresentanti ad hoc per i peruviani all’estero, d’altra parte, non ha prodotto un’eccessiva mobilitazione per la campagna elettorale tra i connazionali emigrati anche se questi, come già ricordato, sono stati percepiti come decisivi soprattutto per il secondo turno di ballottaggio.

Il fatto che i voti dall’estero confluiscano nella circoscrizione elettorale di Lima, oltre a ridurre sensibilmente il peso elettorale dei peruviani nel mondo, non permette di analizzare i risultati relativamente al solo voto estero, così come accade ad esempio in Italia. Le uniche riflessioni che possiamo svolgere, ugualmente importanti, sono relative alla partecipazione elettorale. Confrontiamo dunque alcuni dati relativi alla partecipazione nelle città di Milano, Roma e Torino con quelli di altre comunità peruviane nel mondo, per apprezzare la particolarità offerta dal contesto italiano sul tema della partecipazione politico-elettorale dei peruviani.

La tabella n.4 evidenzia il numero di elettori e votanti nelle maggiori comunità peruviane nel mondo.

Tab. n.4 – Elettori e Votanti delle maggiori comunità elettorali

di peruviani all’estero (> 5.000 elettori)

| | | | | |

|Città |Paese |Elettori |Votanti |% di votanti |

|Buenos Aires |ARGENTINA |52.705 |40.398 |76,6% |

|Madrid |SPAGNA |42.841 |29.657 |69,22% |

|Santiago Del Chile |CILE |30.096 |25.593 |85,03% |

|New York |USA |27.071 |13.241 |48,9% |

|Miami |USA |24.597 |12.600 |51,22 % |

|Milano |ITALIA |21.825 |16.802 |76,98% |

|Barcellona |SPAGNA |20.657 |14.828 |71,78% |

|New Jersey |USA |19.610 |10.412 |53,1% |

|Los Angeles |USA |14.858 |6.826 |45,9% |

|Roma + Lazio |ITALIA |11.277 |8.407 |74,54% |

|Caracas |VENEZUELA |9.278 |5.334 |57,5% |

|Virginia |USA |8.840 |5.052 |57,14% |

|San Francisco |USA |7.064 |3.589 |50,8% |

|Torino |ITALIA |6.134 |5.198 |84,7% |

|Maryland |USA |5.614 |3.610 |64,3% |

|La Plata |ARGENTINA |5.547 |4.485 |80,8% |

Fonte: Elaborazione su dati JNE (Jurado Nacional de Elecciones)

Come si vede le comunità peruviane in Italia hanno registrato tra i più alti tassi di partecipazione elettorale dei peruviani nel mondo. La tabella seguente ordina le città nel mondo dove la partecipazione elettorale ha superato il 70%:

Tab. n.5 – Partecipazione elettorale dei peruviani all’estero, elezioni 2006: le comunità nel mondo (> 5.000 elettori) con partecipazione superiore al 70%.

|Città |Paese |Percentuale |

| | |votanti |

| Santiago del Chile |CHILE |85,03% |

|Torino |ITALIA |84,7% |

|La Plata |ARGENTINA |80,7 % |

|Milano |ITALIA |76,9% |

|Buenos Aires |ARGENTINA |76,6% |

|Roma + Lazio |ITALIA |74,5% |

|Barcellona |SPAGNA |71,7% |

Fonte: Elaborazione su dati JNE

Il confronto tra città italiane e il resto del mondo, così come emerge dalle tabelle precedenti, è di notevole importanza e ci permette di osservare che le città di Milano, Roma e Torino rientrano nelle sette comunità con i più alti tassi di partecipazione al mondo. In particolare Torino è, tra le comunità rilevanti nel mondo, la città con il più alto tasso di partecipazione elettorale all’estero dopo quella di Santiago del Cile.

Da osservare che la partecipazione elettorale di Madrid non rientra in questa classifica e Barcellona è solo all’ultimo posto. Questo denota, dunque, una propensione più alta del peruviano in Italia a partecipare alle elezioni politiche del proprio paese, nonostante la comunità in Spagna sia più numerosa e più strutturata. Data l’importanza di questi due paesi europei, nell’accoglienza dell’immigrazione peruviana, può essere utile confrontare meglio la partecipazione politico-elettorale nei due contesti.

Il confronto tra la partecipazione elettorale dei peruviani in Italia e in Spagna emerge più chiaramente dalla tabella n.6. Considerando infatti le città italiane di Milano, Roma e Torino e quelle spagnole di Madrid, Barcellona e Valencia emerge che le tre città italiane hanno tutte registrato tassi di partecipazione più alti. La partecipazione elettorale media dei peruviani in Italia è stata del 75,16%, in Spagna del 67,69%. A differenza del nostro paese, i peruviani residenti nelle città iberiche godono anche del diritto di voto amministrativo locale. Questa importante possibilità, negata fino a questo momento in Italia, potrebbe rappresentare un elemento che giustifichi una maggiore integrazione, e quindi maggiore partecipazione, nel contesto di residenza, penalizzando la partecipazione rivolta alla madrepatria. È vero anche, però, che Spagna e Italia si differenziano da molti anni per diversi tassi di partecipazione elettorale; il nostro paese è considerato tra quelli dove si vota di più in Europa mentre in Spagna, da alcuni anni, l’astensionismo è in forte crescita. Potrebbe quindi essere ipotizzabile un’influenza diretta della cultura politica e degli atteggiamenti partecipativi del paese di residenza sulle comunità immigrate più integrate e stabili nel territorio.

Tab. n.5 - Partecipazione elettorale dei peruviani in Italia e Spagna, elezioni 2006.

|ITALIA |

|Città |Elettori |Votanti |Voti bianchi |Voti nulli |Voti validi |Astenuti |% votanti |

|Milano |21.825 |16.802 |2.847 |795 |13.133 |5.023 |76,98% |

|Torino |6.134 |5.198 |775 |278 |4.145 |936 |84,7% |

|Roma |4.250 |3.058 |422 |170 |2.466 |1.192 |71,9% |

|ITALIA |47.391 |35.620 | | | | |75,16% |

|SPAGNA |

|Città |Elettori |Votanti |Voti bianchi |Voti nulli |Voti validi |Astenuti |% votanti |

|Madrid |42.841 |29.657 |4.431 |2.896 |22.330 |13.184 |69,22% |

|Barcellona |20.657 |14.828 |2.417 |1.270 |11.141 |5.829 |71.78% |

|Valencia |1.239 |767 |113 |20 |634 |472 |61,9% |

|SPAGNA |70.818 |47.942 | | | | |67,69% |

Fonte: elaborazione su dati JNE

In conclusione, quindi, è possibile affermare che la comunità peruviana in Italia è stata tra le più partecipative in occasione delle elezioni del 2006 e quella di Torino, in particolare, è risultata la seconda città con la maggiore percentuale di partecipanti in tutto il mondo.

I.4 L’indagine empirica nelle città di Roma e Torino

I.4.1 Peruviani a Roma e Torino: i dati emersi dall’indagine empirica

L’indagine empirica condotta nelle città di Roma e Torino ha contemplato due livelli di analisi paralleli: da un lato è stato somministrato un questionario a un campione di 40 individui per ognuno dei casi di studio e dall’altro sono state condotte delle interviste aperte ai community leader delle due città. Il metodo utilizzato nella costruzione del campione è stato in parte casuale e in parte snow-balling, con l’attenzione a differenziare il più possibile il campione di riferimento. Date le caratteristiche numeriche del campione non è possibile lanciarsi in alcuna analisi quantitativa dei dati emersi che contempli uno studio percentuale dei risultati; ci limiteremo, dunque, a una descrizione prevalentemente qualitativa delle due realtà osservate, di volta in volta integrata con le informazioni raccolte negli incontri con i diversi community leader.

In questo paragrafo illustriamo alcune caratteristiche emerse dall’indagine sul campo, confrontando quelle di Roma con quelle di Torino ed evidenziando eventuali discrepanze rispetto ai dati ufficiali illustrati nel capitolo precedente. In altre parole l’indagine empirica ci permette di verificare, con tutti i limiti di un campione ridotto, la veridicità di quelle caratteristiche generali che emergono dalle analisi dei dati Istat e delle Amministrazioni locali.

Per quanto riguarda la provenienza dei peruviani intervistati a Roma e Torino c’è, in entrambi i casi, una prevalenza di coloro che vengono da Lima e dalla sua provincia: 29 dei 40 intervistati a Roma viveva nella provincia di Lima prima di venire in Italia così come 22 dei 40 intervistati a Torino. Questo è dovuto senz’altro alla grande concentrazione di abitanti nella capitale peruviana e nella sua area metropolitana, dovuta ai consistenti flussi migratori interni cui abbiamo già accennato. È possibile che Roma attiri un numero maggiore di peruviani provenienti dalla zona della capitale. In effetti la maggioranza dei peruviani intervistati a Roma ha dichiarato di esser cresciuto in una grande città con più di 500.000 abitanti mentre tra i peruviani intervistati a Torino poco meno della metà proviene da una grande metropoli.

Le caratteristiche anagrafiche e di genere dei due campioni non si discostano molto tra loro e confermano la prevalenza di un’immigrazione femminile e sostanzialmente giovane, con una maggiore rappresentazione della fascia d’età compresa tra i 26 e i 35 anni. Tra i peruviani residenti a Roma la quota femminile è proporzionalmente maggiore rispetto a quella di Torino.

Nelle due città prese in esame vi è una maggioranza di individui in possesso di diploma secondario e superiore, seguito da una buona quota di immigrati in possesso di laurea e da una quota minoritaria di immigrati in possesso del solo titolo di studio elementare. La presenza di laureati è maggiore nella città di Torino. Anche su questo punto, dunque, i due campioni considerati confermano la tendenza di un’emigrazione dal Perú caratterizzata da livelli di istruzione medio-alti.

I lavoratori dipendenti rappresentano la quota maggioritaria in entrambi le città ma a Roma vi è una quota maggiore di lavoratori indipendenti rispetto a quella riscontrabile nella città di Torino. I settori più rappresentati sono, per quanto riguarda Roma, il commercio alimentare e di servizi telefonici (phone center), la ristorazione, il lavoro domestico, le imprese di pulizia, l’insegnamento e i servizi alle imprese. Per quanto riguarda Torino i peruviani intervistati sono occupati, nell’ordine, nel commercio alimentare, nell’abbigliamento, nella vendita di servizi telefonici (phone center), nel lavoro domestico, nel lavoro infermieristico, nell’insegnamento, nei servizi alle imprese e nel settore della ristorazione. Probabilmente la vocazione più turistica della città di Roma ha favorito la crescita di attività legate a questo tipo di mercato, in particolar modo ristoranti etnici, gastronomie, internet point e agenzie di viaggi.

La prevalenza di settori di lavoro privati, insieme a una quota maggioritaria di lavoratori dipendenti, fa ipotizzare che molti dei peruviani intervistati abbiano trovato lavoro dipendente presso imprese private di connazionali, magari con l’auspicio di poter riuscire un giorno a mettersi in proprio.

Interessante la differenza riscontrabile nel campione tra Roma e Torino circa l’anno di arrivo in Italia: nella città piemontese si rileva una quota significativa, seppur non maggioritaria, di “nuovi arrivati” a partire dal 2005 mentre nella capitale è decisamente maggioritaria la quota di peruviani che hanno lasciato il loro paese negli anni novanta, specie tra il 1992 e il 1993. Questo dato appare leggermente in controtendenza rispetto a quanto ricavabile dai dati Istat secondo cui a Roma si sarebbe concentrata buona parte dell’immigrazione peruviana più recente.

La comunità torinese, così come osservato dalla nostra indagine empirica, apparirebbe caratterizzata dunque da una minore anzianità migratoria, da un maggiore equilibrio di genere e da un livello più alto, rispetto a Roma, di istruzione.

Sia tra i peruviani di Roma che tra quelli di Torino la motivazione principale del trasferimento all’estero è stata quella lavorativa, seguita da motivi di ricongiungimento familiare. In particolare questa seconda motivazione appare più presente tra i peruviani di Torino, molti dei quali arrivati in Italia negli ultimi anni. A dispetto di questo però, il livello di italiano, secondo l’autopercezione dei singoli intervistati, è alto in entrambi le città. Anche coloro i quali sono arrivati negli ultimi anni affermano, e dimostrano, un livello di conoscenza della lingua italiana piuttosto alto, anche perché, a differenza dei primi arrivati, oggi molti iniziano a studiare la lingua già in Perú prima di partire per l’Europa.

Sulla motivazione del trasferimento all’estero è evidente l’enorme discrepanza tra quelli che possiamo considerare dati ufficiali peruviani e quelli emersi dalla nostra indagine. Secondo la già citata indagine OIM, infatti, oltre il 75% dei peruviani che ha lasciato il paese tra il 1992 e il 2007 lo avrebbe fatto per motivi turistici. È evidente che questo dato riflette soltanto la necessità del possesso di un visto turistico per poter emigrare. La scelta di arrivare a Roma o a Torino, in generale, dipende in larga parte da pregressi contatti con amici o familiari piuttosto che da una scelta consapevole dipendente da motivi lavorativi o personali.

In entrambi i casi considerati la quota di peruviani che ammette di tornare a casa almeno una volta, o più di una volta, all’anno è molto bassa; la maggioranza, infatti, riesce a tornare in Perú ogni due o tre anni anche se vi è una quota significativa degli intervistati, specie quelli che sono arrivati dopo il 2001, che ha dichiarato di non esser mai rientrato in Perú.

Ragionando sulla frequenza di contatti con le autorità consolari peruviane, la stragrande maggioranza degli intervistati, sia a Roma che a Torino, ha riconosciuto di aver contattato il consolato al massimo una volta nell’arco di un anno; tra i peruviani di Torino i contatti sembrano più sporadici ed è proporzionalmente maggiore la quota di coloro che hanno dichiarato di non aver mai avuto contatti con il consolato durante il loro soggiorno in Italia. Questo dato spiega come mai il numero di peruviani che ha partecipato alle elezioni dei Consejos de Consulta, organi consultivi dei Consolati, sia estremamente basso. I peruviani percepiscono distante l’autorità consolare, sospettandone spesso la corruzione e il mal costume. C’è poi un’altra motivazione che tende a tener lontani i peruviani dalle proprie rappresentanze consolari. La necessità di dover pagare una multa, qualora non si fosse esercitato il diritto-obbligo di voto all’estero, ha spesso provocato un circolo vizioso di diffidenza e distanza dal consolato con un conseguente calo sensibile della partecipazione elettorale all’estero nelle ultime tornate.

I.4.2 Comportamento politico transnazionale nelle città di Roma e Torino

L’obiettivo principale dei questionari utilizzati è stato quello di capire se esistono, indagandone eventualmente alcuni aspetti, caratteri transnazionali della partecipazione politica dei peruviani residenti a Roma e Torino. In primo luogo si è indagato sul livello di conoscenza e di informazione politica e, in secondo luogo, si è verificata la presenza di attività politiche transnazionali, cercando di comprenderne la direzione, l’intensità e la frequenza. In questo paragrafo analizzeremo dunque i risultati emersi dall’analisi dei due campioni considerati, confrontando le risposte con alcuni degli indicatori socio-demografici illustrati nel paragrafo precedente.

Il campione osservato nella città di Roma, così come quello nella città di Torino, dichiara in maggioranza di conoscere abbastanza i temi della politica peruviana e la quota di coloro che dichiarano di non averne alcuna conoscenza è estremamente bassa in entrambi i casi osservati. In entrambi le città è minoritaria la quota di persone che, in Perú, era iscritta a un partito e ancora meno a un sindacato. Nel campione osservato a Roma, però, vi è una quota maggioritaria che dichiara di essere iscritta a un sindacato italiano a differenza di Torino dove appare trascurabile la quota di peruviani sindacalizzati. Nessun peruviano intervistato a Roma o a Torino è iscritto ad alcun partito italiano.

Più che a Roma, è nella città piemontese che si osserva il maggior numero di peruviani che frequentano abitualmente un’associazione. Tra coloro che a Roma dichiarano di essere iscritti a un’associazione vi è una netta maggioranza di giovanissimi tra i 18 e i 25 anni: questo dato però va considerato alla luce delle abitudini di molti giovani peruviani residenti nella Capitale. A Roma, infatti, molte serate peruviane in discoteche e locali sono organizzate da associazioni che richiedono all’ingresso, come requisito obbligatorio, l’iscrizione al proprio gruppo. Il numero più alto di serate organizzate a Roma, rispetto a Torino, potrebbe spiegare tale prevalenza giovanile di iscritti nelle associazioni.

Sul livello di conoscenza dei temi politici, sia nel campione osservato a Roma che in quello osservato a Torino, appare una tendenza chiara: la grande maggioranza degli intervistati risulta più informata sulle questioni politiche italiane che su quelle peruviane. Facciamo qualche esempio.

Pochi peruviani di Torino e di Roma conoscono il nome del sindaco della propria città d’origine o del governatore locale della regione di appartenenza, viceversa la grande maggioranza di loro conosce il nome del sindaco della città dove vive e, in misura leggermente minore, del Presidente della Regione. Analogamente è una netta minoranza quella che conosce il colore della coalizione che governa la propria città d’origine o la propria regione in Perú, mentre praticamente il totale degli intervistati ha conoscenza di chi governa il Perú oggi e del partito che rappresenta. A Torino, infine, maggiormente che a Roma, i peruviani sanno indicare perfettamente anche l’orientamento politico della maggioranza in consiglio comunale e in consiglio regionale.

Per quanto riguarda la conoscenza degli attori della politica italiana, è stato somministrato ai due campioni un piccolo test nel quale gli intervistati dovevano collegare otto nomi di partiti presenti alle ultime elezioni italiane con una serie di leader politici e famosi esponenti di partito. In entrambi i campioni osservati si è riscontrata una conoscenza abbastanza superficiale e limitata sostanzialmente a tre attori principali: Silvio Berlusconi come leader del Partito delle Libertà, Walter Veltroni come leader del Partito Democratico e, a sorpresa, Umberto Bossi come leader della Lega. La conoscenza degli altri leader politici appare invece sostanzialmente scarsa. Questo dato è interessante se si considera che oltre ai due principali contendenti delle ultime consultazioni politiche del 2008, è Umberto Bossi, noto per le sue posizioni anti-immigrazione, a esser conosciuto tra i peruviani residenti in Italia, che certamente seguono e si informano sulle questioni più vicine a loro. La conoscenza di Bossi è analoga sia nel campione di Roma che in quello di Torino.

Incrociando i dati sulla conoscenza politica con il genere e con l’età degli intervistati emerge che a Torino le donne tra i 25 e i 35 anni risultano le più informate sui temi della politica italiana, a differenza di Roma dove è la fascia più giovane, tra i 18 e i 25 anni, a dichiararsi maggiormente interessata e informata sulla politica del nostro paese. Questa osservazione acquista una maggiore rilevanza se considerata con la tendenza del genere maschile. I peruviani maschi, tra i 25 e i 35 anni, sia a Roma che a Torino, risultano leggermente più informati sui temi della politica peruviana rispetto alle donne della stessa fascia d’età. La spiegazione di questa differenza basata sul genere può essere trovata considerando l’anno di arrivo in Italia: molte donne infatti hanno preceduto i loro mariti e fratelli nell’emigrazione verso il nostro paese e sono presenti sul territorio italiano da più tempo, avendo dunque sviluppato una maggiore attenzione e un interesse più forte per le vicende politiche italiane.

Volgendo lo sguardo ai contenuti e ai temi politici di maggiore interesse, non si riscontrano differenze tra il campione osservato a Roma e quello a Torino. Riguardo i temi della politica peruviana, quelli di maggiore interesse sono legati ai rapporti tra Perú e Italia e alle campagne elettorali. Scarsi invece l’interesse per le questioni economiche, per le politiche del lavoro, e per l’amministrazione della realtà locale di provenienza. A sorpresa non risultano particolarmente rilevanti, per gli intervistati, i temi dell’emigrazione trattati nel dibattito politico peruviano, nel quale si critica, quasi all’unanimità, l’assenza di una seria riflessione sui peruviani nel mondo.

Nel dibattito politico italiano la situazione appare quasi rovesciata: i temi di maggiore interesse per gli intervistati sono quelli legati al mercato del lavoro e alle sue politiche, alle questioni economiche e soprattutto ai temi dell’immigrazione e della cittadinanza. A sorpresa, anche qui, si rileva un forte interesse per le campagne elettorali italiane, nonostante l’assenza di qualsiasi diritto di voto nel nostro paese.

Il dato relativo ai temi di maggiore interesse acquista un rilievo particolare se incrociato con quello relativo all’anno di arrivo in Italia. Contrariamente a quanto era possibile ipotizzare, sono i peruviani da più tempo in Italia a mostrare livelli di interesse maggiore per le questioni politiche del paese d’origine. In altre parole è possibile credere che solo chi ha risolto i problemi di inserimento e ha raggiunto un livello soddisfacente di integrazione abbia l’interesse e la voglia di volgere l’attenzione al dibattito politico peruviano, a differenza di chi è appena arrivato che volge maggiore attenzione alle questioni italiane sull’immigrazione (permessi di soggiorno e normativa relativa) e sulla cittadinanza. Quest’ultima riflessione è in linea con quanto ipotizzato dalla nostra ricerca sulla scorta di Joppke e Morawska (2003) e cioè che la presenza di attività politiche transnazionali tra i migranti non necessariamente implica un minore grado di integrazione nella società di insediamento.

La quasi totalità del campione osservato ha affermato di essere consapevole di avere il diritto di voto per le elezioni peruviane e oltre la metà degli intervistati ha votato alle ultime elezioni del 2006. Tra i peruviani di Torino, peraltro, si riscontra un numero più elevato di assidui elettori che hanno dichiarato di aver votato in tutte le consultazioni degli ultimi anni; questa tendenza confermerebbe il primato della città piemontese quanto a partecipazione elettorale dei peruviani nel mondo.

Sempre in tema elettorale, una fortissima maggioranza dei due campioni osservati ha dichiarato di ritenere estremamente importante l’opportunità di poter votare nelle elezioni italiane, confermando quindi un interesse attivo per le vicende politiche del nostro paese.

Venendo alle attività politiche vere e proprie, gli intervistati avevano a disposizione un elenco di forme di partecipazione politica convenzionali e non convenzionali (Millbrath, 1965) tra le quali selezionare quelle messe in pratica da quando si è trasferita la residenza in Italia. Tale domanda è stata ovviamente ripetuta due volte, per indagare quelle rivolte all’Italia e quelle rivolte al Perú.

I due campioni osservati a Roma e Torino non dimostrano sostanziali differenze, a esclusione di una prevalenza nella città piemontese di individui che hanno avuto contatti con un dirigente politico o sindacale peruviano. In entrambi i contesti presi in esame le attività più diffuse, rivolte sia all’Italia sia al Perú, sono quelle caratterizzate da un livello di coinvolgimento relativamente basso, come l’aver preso parte a discussioni politiche e l’aver avuto contatti con dirigenti o esponenti politici. Solo una netta minoranza ha dichiarato di essersi candidato a qualche carica elettiva (in Perú), di aver aderito a uno sciopero, di aver firmato petizioni o di aver preso parte a manifestazione e cortei.

A Torino un numero maggiore di intervistati rispetto al campione di Roma ha dichiarato di aver versato offerte in denaro per sostenere un candidato alle elezioni politiche peruviane, confermando ancora una volta un interesse maggiore della comunità peruviana di Torino verso le consultazioni elettorali del paese di origine. Un’osservazione su questo punto può risultare utile a leggere i risultati del nostro lavoro; agli intervistati era stato chiesto di scegliere al massimo tre forme di partecipazione politica tra le dieci indicate nel questionario ma circa la metà dei due campioni si è limitata a indicarne soltanto una o due. Questa riflessione ci fa ipotizzare una generale tendenza alla scarsa mobilitazione e attivazione politica del cittadino peruviano immigrato in Italia.

Incrociando infine il dato sulle forme di partecipazione politica con quelli socio-demografici risulta che gli intervistati più istruiti e appartenenti alla fascia d’età 25-35 anni, sono quelli più attivi politicamente. Tra i giovanissimi (18-25 anni) si riscontra, in entrambi i campioni di Roma e Torino, una tendenza piuttosto netta alla scarsa mobilitazione politica. Non si riscontrano invece altre correlazioni interessanti tra genere, occupazione, luogo di origine e forme di partecipazione politica messe in atto.

Infine vediamo alcuni risultati osservabili circa le fonti e la frequenza dell’informazione politica in Italia e in Perú. In generale i due campioni intervistati hanno dichiarato di interessarsi spesso (almeno 1-2 volte al mese) alle questioni politiche peruviane ma con alcune lievi differenze tra le due città. Nel campione di Torino, infatti, risulta maggiore il numero di individui che si informano con una frequenza alta dei temi politici peruviani: sommando coloro i quali dichiarano di interessarsi tutti i giorni con quelli che dichiarano di farlo spesso, si supera di gran lunga la metà del campione. A Roma, invece, essendo più forte la componente che dichiara di interessarsi solo in occasione delle elezioni, è solo la metà del campione che presente una frequenza alta di informazione politica.

Riguardo la frequenza alle informazioni politiche italiane, invece, appare maggioritaria in entrambi i campioni la presenza di individui che si informano spesso o tutti i giorni. Da notare che nessuno degli intervistati, sia a Roma che a Torino, ha dichiarato di non informarsi mai sulle vicende politiche italiane. La fonte di gran lunga più utilizzata, per seguire sia i temi italiani sia quelli peruviani, è Internet con una prevalenza dei siti in lingua spagnola. Le informazioni politiche sull’Italia, infatti, sono reperite anche dalla stampa (anche qui si preferisce quella in lingua spagnola rivolta alla comunità latinoamericana in generale), ma soprattutto dalla televisione italiana.

Tra le fonti di informazione degli avvenimenti politici in Perú, risaltano, in entrambi i campioni, i connazionali e i familiari ancora residenti oltreoceano. Solo un’esigua minoranza, invece, ha dichiarato di reperire informazioni politiche sull’Italia e sul Perú dalle Associazioni di migranti eventualmente frequentate, segno di una scarsa politicizzazione di queste. Analizzando il rapporto tra partecipazione politica in Italia e partecipazione politica in Perú praticamente nessuno degli intervistati percepisce le due direzioni come conflittuali o in competizione e la grande maggioranza di loro, sia a Roma che a Torino, conviene sul fatto che la partecipazione verso il Perú non abbia nulla a che fare con quella rivolta all’Italia, scartando qualsiasi ipotesi di influenza reciproca.

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II Il caso romeno. Le comunità romene di Roma e Torino

Giordano Altarozzi

INDICE

II.1 Fenomeni migratori dalla Romania: introduzione storica

II.1.1 La prima fase: 1990-1994

II.1.2 La seconda fase: 1995-2000

II.1.3 La terza fase: dal 2000 all’adesione

II.2 Legislazione e politiche migratorie nella Romania post-comunista

II.2.1 Regime normativo in materia di passaporti e documenti per la circolazione oltre frontiera

II.2.2 Strumenti per il controllo dei flussi: le condizioni per l’uscita dal paese

II.2.3 Gli accordi di riammissione

II.2.4 Regolamentazione specifica in merito all’emigrazione per lavoro

II.2.5 Accordi bilaterali in materia di circolazione di forza-lavoro

II.2.6 Diritto di cittadinanza e partecipazione al voto

II.3 - Caratteristiche dell’immigrazione romena in Italia

II.3.1 Caratteristiche della presenza in Italia fino all’adesione della Romania all’UE

II.3.2 I romeni e il mercato del lavoro italiano

II.3.3 L’associazionismo romeno in Italia

II.4 L’indagine empirica sulle comunità di Roma e Torino

II.4.1 Romeni a Roma e Torino: i dati emersi dall’analisi empirica

II.4.2 Comportamento politico transnazionale della comunità romena di Roma

II.4.3 Comportamento politico transnazionale della comunità di Torino

II.1 Fenomeni migratori dalla Romania: introduzione storica.

Il 1989 ha significato, per la Romania più che per qualsiasi altro paese del cosiddetto “impero esterno” sovietico, una vera e propria rivoluzione[39]. Con i fatti del 21-25 dicembre 1989, i romeni si liberano di un regime che in quarant’anni ha distrutto ogni equilibrio sociale preesistente, senza contribuire a costruirne alternativi, e che è riuscito – con la folle idea di Ceauşescu di restituire integralmente il debito estero – a portare la popolazione a un livello di vita tra i più bassi, non distante da quello dei Paesi del terzo mondo. Tra le tante limitazioni che la popolazione romena ha dovuto sopportare durante i lunghi anni del regime di socialismo reale, impostole con la forza alla fine della seconda guerra mondiale, una delle più difficili era senz’altro costituita dall’impossibilità di stabilire qualsivoglia forma di contatto con il mondo esterno[40]. A partire dal 1990, la ritrovata libertà di movimento all’estero ha comportato un progressivo aumento del fenomeno migratorio. Un’indagine condotta da Dumitru Sandu ha quantificato in circa 2.500.000 le famiglie romene in cui almeno un componente abbia avuto, tra il 1989 e il 2006, contatti con l’estero[41]. La stessa ricerca ha determinato anche le caratteristiche generali delle fasce di popolazione che hanno sperimentato esperienze lavorative all’estero nel periodo considerato, ponendo particolare attenzione alla fascia d’età, alla provenienza (rurale o urbana) e all’appartenenza di genere. Da tale analisi emerge dunque che, tra il 1990 e il 2006, la via dell’emigrazione per motivi di lavoro rappresenta un’opzione appetibile più per i giovani che per gli anziani, tendenzialmente più per gli uomini che per le donne e in misura maggiore dalle zone rurali, dove la sussistenza è più difficile da guadagnare, che da quelle urbane.

Nonostante il fenomeno migratorio dalla Romania abbia costituito una costante fin dai primi mesi post-rivoluzionari, va tuttavia notato come esso abbia conosciuto fasi diverse, sia dal punto di vista quantitativo – un’emigrazione massiccia si può riscontrare soltanto a partire dal 2000 – che da quello delle aree di provenienza e di destinazione. In tale senso è possibile suddividere il fenomeno migratorio nell’intero periodo 1990-2006 in tre fasi: 1990-1994, 1995-2000, 2001-2006[42].

II.1.1 La prima fase: 1990-1994

Dal 1990 i romeni tornano dunque a godere della possibilità di uscire liberamente dal loro Paese, senza essere costretti a “evadere” da esso, precludendosi così ogni possibilità di ritorno[43]. I flussi in uscita non risultano però particolarmente elevati da un punto di vista numerico, e neanche regolari; l’elaborazione di un progetto migratorio richiede spesso l’esistenza di reti e catene migratorie che popolazioni “digiune” di contatti con l’estero non potevano avere. Il primo periodo, caratterizzato da migrazioni transfrontaliere, ossia da attraversamenti frequenti di frontiere tra due Stati per periodi ridotti e spesso di durata quotidiana, presenta pertanto un carattere decisamente transitorio e temporaneo. Tali movimenti, più o meno legali, sono determinati da iniziative individuali con uno spiccato carattere commerciale. Attraverso la motivazione turistica, il cosiddetto “commercio di valigia” diventa pratica comune. Le destinazioni più gettonate sono costituite dai Paesi vicini, facilmente raggiungibili e che richiedono un investimento minimo; in particolare le mete preferite sono Ungheria – soprattutto dalla Transilvania, anche a causa di una forte presenza magiara nella regione –, Polonia e Turchia[44].

Accanto a questo traffico transfrontaliero di breve durata, appare però anche un altro fenomeno, stavolta di lungo periodo, che riguarda in primo luogo alcune minoranze etniche di Romania, le quali finiscono per indirizzarsi verso gli stati nazionali di riferimento, tra cui in particolare Germania, Israele e Ungheria[45]. Tale processo, che riguarda i sassoni di Transilvania (in maggioranza protestanti) e gli svevi del Banato (generalmente cattolici), oltre che i pochi ebrei dispersi sull’intero territorio nazionale e i magiari delle diverse zone di confine con l’Ungheria, porta al completamento di un fenomeno di più lunga durata, iniziato nel corso gli anni Cinquanta, in concomitanza con l’affermazione del cosiddetto “comunismo nazionale”, allorché il regime decide di risolvere il problema delle minoranze etniche “vendendole” ai paesi occidentali di riferimento – Repubblica Federale di Germania e Israele – in cambio di somme di denaro in valuta pregiata[46]. Un altro gruppo etnico molto attivo dal punto di vista migratorio è quello rom, in cui però lo spostamento, la migrazione, costituiscono un elemento strutturale. Costretti a rimanere all’interno della Romania per oltre cinquant’anni e oggetto di una duplice politica di rigetto e di assimilazione da parte delle autorità comuniste[47], a partire dal 1989 i rom romeni sfruttano appieno la caduta della Cortina di ferro e si diffondono rapidamente in tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e in Turchia.

In conclusione, si può affermare che in questa prima fase i romeni danno vita a un fenomeno di circolazione caratterizzata da alti tassi di rientri; con l’esclusione dei gruppi etnici tedesco ed ebraico, che come detto in tale fase completano un processo migratorio iniziato molto tempo prima, la mobilità da e per la Romania ha tendenzialmente una durata limitata, anche di una sola giornata, e finalizzata a motivazioni economiche legate al piccolo commercio. Verso la metà degli anni Novanta però tale caratteristica comincia a scadere, per essere progressivamente sostituita da progetti migratori di più lunga durata.

II.1.2 La seconda fase: 1995-2000.

Questo periodo è caratterizzato, sul piano interno, da una crisi economica senza precedenti. La classe dirigente post-rivoluzionaria, in gran parte composta da seconde file del Partito Comunista Romeno (PCR) che sono riuscite a cavalcare la rivoluzione, non hanno avviato negli anni immediatamente successivi gran parte delle riforme necessarie per consentire al Paese di avviarsi sulla via di una piena transizione all’economia di mercato e a un progressivo miglioramento del tenore di vita della popolazione. La situazione economica è tra le più disastrose dell’area dell’ex socialismo reale, i salari medi rimangono estremamente bassi – fino almeno al 2002-2003 il salario minimo previsto per legge non supera i 75 euro mensili – a causa anche dell’endemica debolezza della moneta nazionale, il leu. La disoccupazione tocca punte critiche a causa del fallimento di molte delle ex imprese statali, spesso privatizzate in maniera selvaggia, e a un contestuale immobilismo dell’iniziativa privata; l’inflazione raggiunge vette da capogiro arrivando a sfiorare quote del 40% annuo. Se dunque i negozi di Romania sono tornati a riempirsi pian piano di prodotti, le tasche dei romeni rimangono vuote. Contemporaneamente, l’Occidente, che nel frattempo i romeni hanno imparato a conoscere grazie alla diffusione delle emissioni televisive, diventa una destinazione sempre più appetibile. Quello che sembra essere un fallimento determinato dal “tradimento della rivoluzione”[48] del 1989 genera anche un rigetto da parte di molti cittadini, che onestamente avevano creduto di poter dare il loro contributo alla transizione verso la democrazia e che, delusi, decidono di lasciare il Paese alla ricerca di una migliore condizione di vita in Occidente.

Nel 1994 i romeni hanno ormai un bagaglio minimo di esperienza in materia di migrazioni transfrontaliere che consente loro di poter progettare piani migratori a più lunga durata e verso destinazioni più lontane; in tal senso è evidente come l’esistenza di reti già strutturate in determinati Paesi, come Germania e Israele, favorisca l’emigrazione verso di essi anche di cittadini romeni non appartenenti alle minoranze nazionali di riferimento[49]. Altra meta appetibile è la Francia, che già in passato aveva esercitato una forte egemonia culturale ed economica[50]. Tali destinazioni lasciano però progressivamente il posto ai Paesi dell’area mediterranea, Italia in primo luogo, ma anche Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, nonché ad altre mete più lontane come la Gran Bretagna, l’Irlanda, gli Stati Uniti e il Canada.

Anche in tale fase però, almeno all’inizio, il fenomeno migratorio assume un carattere individuale, piuttosto improvvisato, generalmente irregolare, ma progressivamente, man mano che le conoscenze in merito ai tragitti e alle potenzialità del mercato del lavoro occidentale si diffondono, aumentano anche gli spostamenti di gruppi sempre più organizzati. Lo sviluppo della tecnologia informatica e di sistemi di raccolta e catalogazione dei dati relativi ai soggetti che attraversano le frontiere ha contribuito a rendere più difficile il fenomeno migratorio, ma anche a sviluppare tutta una serie di pratiche all’interno delle comunità di migranti tese ad aggirare gli ostacoli.

Altra caratteristica dell’emigrazione di tale fase, che in parte si propagherà anche al periodo successivo, è quella secondo cui esiste una differenziazione tra le diverse regioni storiche che compongono la Romania per quanto attiene ai Paesi di destinazione dei migranti[51]. In tal senso, gli emigranti dalla Transilvania e dal Banato sembrano orientarsi principalmente verso l’Ungheria, la Germania e la Francia, i migranti dalla Moldavia romena (da non confondere con la Repubblica di Moldavia, storicamente denominata Bessarabia) si indirizzano prevalentemente verso l’Italia, quelli dalla Muntenia verso la Spagna e quelli dalla Dobrugia verso la Turchia, anche in tal caso scelta determinata dalla presenza di una relativamente consistente minoranza turco-tatara di religione musulmana. All’interno di questa regionalizzazione dell’emigrazione, si trova un’ulteriore differenziazione in merito alla durata del progetto migratorio. Mentre infatti i migranti da Transilvania, Banato e Moldavia tendono a trasferirsi per periodi lunghi, i munteni, diretti prevalentemente verso la Spagna, danno vita a spostamenti periodici con impieghi soprattutto nell’agricoltura per mezzo di contratti stagionali, in funzione soprattutto di una maggiore vicinanza del sistema produttivo con quello dell’area di provenienza.

II.1.3 La terza fase: dal 2000 all’adesione.

Il 2000 segna un vero e proprio spartiacque dal punto di vista migratorio. Benché quantitativamente crescenti durante tutto il corso degli anni Novanta, le emigrazioni dalla Romania assumono un carattere di massa soltanto a partire da quest’anno, con un crescendo sempre più consistente a partire dal 2002, quando la Romania viene inclusa nello spazio Schengen[52]. Contestualmente i migranti romeni tendono a orientarsi sempre più verso Italia e Spagna, tralasciando progressivamente le altre destinazioni; per sette delle otto regioni storiche che compongono la Romania – con percentuali diverse da regione a regione, con un numero più elevato per quelle orientali – l’Italia diviene la meta preferita, mentre i munteni tendono a preferire la Spagna e dunque a dare vita a un fenomeno migratorio tendenzialmente circolare che prevede periodi di residenza all’estero più ridotti, sia a causa della realtà socio-economica dell’area di partenza che come conseguenza della legislazione del paese di immigrazione, caratterizzata sia per l’agricoltura, sia anche per l’industria, da un elevato grado di flessibilità che sembra bene adattarsi alle caratteristiche e alle necessità dei romeni provenienti da questa particolare area geografica. Anche la Transilvania costituisce un’eccezione a tale regola; la regione vede infatti un flusso costante di migrazioni verso l’Ungheria che riguardano in grandissima parte la minoranza magiara, mentre i cittadini di etnia romena tendono ad allinearsi ai loro connazionali nel preferire, quali mete del loro progetto migratorio, alcuni paesi dell’Europa occidentale, ma anche Canada e Stati Uniti[53]. Tale aumento dei flussi migratori spaventa sia i Paesi occidentali mete del fenomeno, che cominciano a temere una vera e propria “invasione da est”, sia le autorità di Bucarest che vedono svuotarsi il Paese di importanti risorse di forza-lavoro (tanto che allo stato attuale la Romania è costretta a importare mano d’opera dalle più povere regioni limitrofe, tra cui in particolare la Repubblica Moldova, ma anche dalla Cina). Ciò si traduce, come si vedrà in maniera più dettagliata nel successivo paragrafo dedicato alla legislazione in materia di emigrazione, in un giro di vite, per quanto attiene alle norme sulla possibilità di muoversi all’estero, da parte delle autorità romene, che ha come conseguenza principale una notevole contrazione delle emigrazioni legali, e non già una diminuzione tout court del fenomeno.

Tale situazione viene confermata in via indiretta dal sostanzioso aumento delle presenze romene in Italia nel corso del 2007 – anno di ingresso della Romania nell’UE – frutto non tanto di nuovi arrivi quanto piuttosto di legalizzazioni di situazioni di illegalità preesistenti[54].

Quanto espresso finora può essere rappresentato visivamente nelle tabelle che seguono, sviluppate sulla base di dati ufficiali resi pubblici nel 2007 dall’Istituto Nazionale di Statistica di Bucarest. La semplice lettura delle tabelle potrebbe far emergere alcune discrepanze con quanto sostenuto nel testo; onde evitare tali malintesi, appare opportuno fornire alcune indicazioni, tra cui la più rilevante è quella per cui i dati riportati si riferiscono ai cittadini romeni che hanno stabilito la loro residenza all’estero, e non dunque agli emigranti effettivi, la maggioranza dei quali sono soltanto domiciliati nei paesi di destinazione o vi risiedono illegalmente, non rientrando dunque nelle stime dell’Istituto. Inoltre, dai dati non emerge un elemento, quello rom, che pure ha un notevole impatto sul fenomeno migratorio intra-europeo. Nonostante tali imprecisioni nei dati ufficiali, che rendono impossibile una fotografia fedele della realtà migratoria dalla Romania, essi forniscono comunque alcuni importanti spunti di analisi, come per esempio la conferma del fatto che, almeno all’inizio, il processo migratorio permanente – o comunque di lunga durata – abbia riguardato più gli elementi etnici minoritari (tedeschi e magiari in primo luogo, ma anche ebrei) che non l’elemento etnico romeno, il quale a sua volta diviene maggioritario a partire dalla metà degli anni Novanta[55]. Altro elemento di notevole importanza che emerge dall’analisi dei dati è costituito dall’incidenza che hanno le politiche governative sia romene che dei paesi di destinazione sul numero di cittadini romeni neo-residenti al di fuori dei confini patri; a fronte di un tendenziale aumento – a volte anche esponenziale, come nel periodo compreso tra il 2000 e il 2005 – delle emigrazioni, infatti, si può registrare una costante sostanziale diminuzione del numero di cittadini romeni che stabiliscono la loro residenza all’estero. Ciò – come anticipato – dipende dall’impatto che hanno sulla struttura del fenomeno migratorio alcune politiche governative restrittive, le quali anziché limitare la quantità dei flussi migratori dalla Romania, finiscono per incentivare l’emigrazione irregolare che si perpetua nel tempo consentendo soltanto un numero assai ridotto di legalizzazioni successive.

Tabella 1. Cittadini romeni che hanno stabilito il loro domicilio all’estero per appartenenza etnica (1991-2005).

|Anno |Totale |Appartenenza etnica |

| | |Romeni |Tedeschi |Ungheresi |Ebrei |Altri |

|1991 |44160 |19307 |15567 |7494 |516 |1276 |

|1992 |31152 |18104 |8852 |3523 |224 |449 |

|1993 |18446 |8814 |5945 |3206 |221 |260 |

|1994 |17146 |10146 |4065 |2509 |177 |249 |

|1995 |25675 |18706 |2906 |3608 |131 |324 |

|1996 |21526 |16767 |2315 |2105 |191 |148 |

|1997 |19945 |16883 |1273 |1459 |136 |194 |

|1998 |17536 |15202 |775 |1217 |198 |144 |

|1999 |12594 |11283 |390 |696 |111 |114 |

|2000 |14753 |13438 |374 |788 |66 |87 |

|2001 |9921 |9023 |143 |647 |72 |36 |

|2002 |8154 |7465 |67 |489 |28 |105 |

|2003 |10673 |9886 |20 |661 |24 |82 |

|2004 |13082 |11890 |36 |1062 |36 |58 |

|2005 |10938 |10301 |93 |460 |48 |36 |

|TOTALE |275701 |197215 |42821 |29924 |2179 |3562 |

(Fonte: Romanian Statistical Yearbook 2006, Institutul Naţional de Statistică)

Tabella 2. Cittadini romeni che hanno stabilito il loro domicilio all’estero per paese di destinazione (1991-2005)

|Anno |Totale |Principali paesi di destinazione |

| | |

|1993 |Polonia; Slovacchia |

|1994 |Francia; Grecia; Repubblica Ceca |

|1995 |Benelux (Belgio, Lussemburgo e Olanda) |

|1996 |Svizzera |

|1997 |Spagna; Italia |

|1998 |Germania |

|2000 |Danimarca |

|2001 |India; Finlandia; Bulgaria; Irlanda; Slovenia; Svezia; Croazia |

|2002 |Austria; Repubblica Moldova; Ungheria; Lettonia; Albania |

|2003 |Norvegia; Portogallo; Libano; Regno Unito |

La tabella rende facile constatare come molte delle mete più importanti dell’emigrazione romena, passata e attuale, sono interessate da accordi di riammissione (con le importanti eccezioni dei paesi nord-americani, USA e Canada, e di Israele). Oltre a ciò, essa suggerisce come, similmente al caso delle misure imposte per l’uscita dal paese, si produca un significativo incremento di tali atti a partire ancora dal biennio 2000-2001, in concomitanza con l’aumento massiccio del numero di emigrazioni dalla Romania. Accanto a ciò va però notato come lo Stato romeno, con un trend economico che vede il paese avere un forte tasso di crescita, cominci a preoccuparsi anche del fenomeno inverso, ossia di divenire a sua volta paese di attrazione di immigrati da zone più arretrate economicamente o che vivono condizioni di crisi; in tal senso vanno letti, per esempio, gli accordi con l’India, con il Libano e soprattutto con la Repubblica Moldova. Questo accordo non viene firmato, però, per consentire il rimpatrio di romeni da quel paese – come potrebbe essere per esempio quello con Italia e Spagna del 1997 –, bensì al contrario per consentire, se non nell’immediato almeno in futuro, il rimpatrio dalla Romania di immigrati moldavi irregolari.

II.2.4 Regolamentazione specifica in merito all’emigrazione per lavoro

Mentre le norme e le politiche governative analizzate finora hanno fatto riferimento in maniera generale al diritto alla libera circolazione e vanno intese come applicabili a tutti i cittadini romeni che decidono di spostarsi, indifferentemente dalle motivazioni e dal periodo di soggiorno, al di fuori dei confini nazionali, le pagine che seguono si riferiscono a un segmento particolare, ossia a quello della emigrazione per lavoro legale, sulla base di contratti di lavoro. Si tratta cioè dei circuiti di migrazione legale, mediata (da parte dello Stato o di enti privati) e non mediata. In questo particolare settore, la presenza dello Stato è praticamente assente fino al 2000. Gli accordi bilaterali in materia di circolazione di forza lavoro sono assai scarsi, mentre il controllo nel settore della mediazione privata è circoscritta al solo caso delle agenzie che si occupano della collocazione di manodopera romena sul mercato del lavoro israeliano[90].

La prima misura in tal senso viene presa nell’agosto del 1996; si tratta di un decreto del ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale (311/1996) in cui si stabilisce l’obbligatorietà, per i cittadini romeni che ottengono un contratto di lavoro in Israele, di un’assicurazione che copra le spese in caso di “incidente, malattia, ricovero ospedaliero, assistenza medica, decesso, rimpatrio” e che deve essere sottoscritta prima dell’ottenimento dei documenti necessari all’uscita dal paese[91]. L’impegno dello Stato nel tentativo di porre rimedio ai problemi che il flusso di emigrazione comincia a generare si manifesta, lo stesso anno, mediante la creazione – sempre tramite decreto del ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale (439/1996) – di un’apposita Commissione speciale chiamata a garantire la corretta applicazione del decreto 311/1996[92]. La decisione da parte di Bucarest di dare vita a un simile organismo di controllo, e il funzionamento dello stesso, dimostrano la volontà delle autorità di affrontare in maniera seria i problemi – essi pure seri – posti dall’aumento del volume di lavoratori romeni in partenza per Israele. Tale misura rimane però isolata nel corso degli anni Novanta ed è volta a regolamentare l’emigrazione verso una sola delle mete preferite dall’emigrazione romena, tralasciando invece tutte le altre.

Il 2000 segna in tale ambito, come in molti altri nel caso del fenomeno migratorio, un vero e proprio spartiacque. In quell’anno il Parlamento approva infatti la prima legge – la 156/2000 – riguardante la protezione dei cittadini romeni che lavorano all’estero[93]. Si tratta del primo di una serie di atti normativi che tenta di regolamentare l’emigrazione romena in un momento in cui il fenomeno subisce una prima, decisa impennata. Con tali provvedimenti si afferma in modo sempre maggiore il ruolo dello Stato non solo come agente a difesa degli interessi e dei diritti dei suoi cittadini che prestano attività lavorative al di fuori dei confini nazionali, ma anche quale vera e propria agenzia di collocamento della forza-lavoro sul mercato internazionale. Lo Stato romeno procede alla tutela dei diritti dei suoi cittadini all’estero in primo luogo mediante la firma di accordi, intese, trattati e convenzioni con gli Stati esteri; ciò porta in primo piano il ruolo del Ministero degli Affari Esteri, che diviene così l’istituzione a cui è attribuita in via primaria la tutela dei cittadini romeni all’estero per motivi di lavoro. Fino a quel momento la Romania aveva concluso accordi internazionali in merito al collocamento di lavoratori romeni presso Stati esteri soltanto con due Paesi, Germania e Libano, di cui soltanto la prima costituiva una meta reale dell’emigrazione legale per motivi di lavoro. A partire dal 2000, invece, le autorità di Bucarest siglano accordi simili con tutti i maggiori Paesi di destinazione – nell’ordine Svizzera (2000), Ungheria e Lussemburgo (2001), Spagna e Portogallo (2002), Francia (2004), Italia (2006), mentre nel 2005 viene rinnovato quello con la Germania.

Benché lo scopo dichiarato della legge sia quello di proteggere i “cittadini romeni che lavorano all’estero”, il suo nucleo centrale contiene delle previsioni che mirano piuttosto a regolamentare l’attività delle aziende che mediano l’ingaggio di lavoratori romeni all’estero, denominate nella legge “agenzie per l’occupazione della forza lavoro”[94]. L’art. 14, in particolare, riconosce al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, il ruolo di “coordinamento e controllo dell’attività tesa all’occupazione della forza lavoro all’estero”. Le innovazioni rispetto alla situazione precedente sono dunque sostanziali. In primo luogo, sulla base dell’art. 5 della legge, l’attività di mediazione viene riconosciuta esclusivamente a quei soggetti che abbiano specificato, tra gli oggetti della loro attività, quella di “reclutamento e ingaggio della forza lavoro romena all’estero”, e tale attività può essere svolta soltanto dopo esplicita autorizzazione da parte del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (art. 8). Ulteriori obblighi vengono imposti inoltre alle aziende autorizzate a esercitare attività di mediazione tra aziende straniere e lavoratori romeni; in particolare, esse sono obbligate a mantenere il segreto sui dati personali dei lavoratori con cui entrano in contatto (art. 7), non possono negoziare con lavoratori romeni se non sulla base di proposte di lavoro puntuali (art. 10) e sono obbligate a stipulare contratti di lavoro anche in lingua romena (art. 11). La legge 156/2000 prevede anche l’integrazione dell’Ispettorato del Lavoro – che assume funzioni di controllo e sanzione nei confronti delle società di intermediazione – tra le istituzioni chiamate a occuparsi di emigrazione legale di forza lavoro (art. 16).

Tale atto normativo sembra giustificare l’affermazione secondo cui lo Stato romeno prende coscienza e riconosce il suo carattere di Paese esportatore di manodopera, fissando al tempo stesso una serie di misure tese a prevenire situazioni di sfruttamento, traffico, raggiri ai danni dei suoi lavoratori. La 156/2000 viene poi completata dalla Decisione 384/2001, che traccia i regolamenti attuativi della legge e specifica i cambiamenti introdotti dall’atto legislativo, soprattutto per quanto riguarda le partenze per motivi di lavoro mediante l’intermediazione di agenzie private[95]. L’attività dello Stato nel settore dell’emigrazione legale per motivi di lavoro continua nel 2001 con la progettazione di un’istituzione specifica, cui sono riconosciute attribuzioni dirette nel settore della mediazione tra aziende straniere e lavoratori romeni. La Decisione governativa 1320/2001 istituisce infatti l’Ufficio Nazionale per il Reclutamento e l’Ingaggio di Forza Lavoro all’Estero, successivamente denominato Ufficio per la Migrazione della Forza Lavoro[96]. Tale Ufficio è chiamato ad applicare gli accordi bilaterali siglati dalla Romania e ha, contestualmente, la possibilità di mediare in maniera diretta tra le aziende straniere e i lavoratori romeni nei Paesi con cui la Romania non ha ancora concluso specifici accordi. In tal senso l’Ufficio, che dipende dal Ministero del Lavoro, può dunque svolgere le stesse funzioni delle agenzie di mediazione private. Lo Stato smette dunque di esercitare una semplice funzione di coordinamento e controllo dell’emigrazione della forza lavoro per cominciare, invece, a gestirla in prima persona.

Tale implicazione diretta dello Stato nell’attività di mediazione scatena però forti reazioni da parte delle agenzie private – sintomo dell’enorme business che si è sviluppato nel frattempo intorno al mercato del lavoro all’estero – le quali si associano nel Patronato delle Agenzie Economiche Accreditate per l’Occupazione e l’Ingaggio di Forza Lavoro “Acord”, allo scopo di applicare una strategia comune e tentare di contrastare l’attività dello Stato nel settore[97]. Tali proteste, e le critiche al funzionamento dei nuovi enti che le hanno accompagnate, hanno portato a una modifica delle misure legislative in questione. L’Ordinanza 43 del 25 luglio 2002 per la modifica della Legge 156/2000[98] rimuove sostanzialmente le autorizzazioni concesse dal Ministero del Lavoro alle agenzie di collocamento dei lavoratori romeni all’estero, alle quali è richiesta, per poter operare, una semplice registrazione presso l’ispettorato del lavoro competente per territorio, mentre i controlli successivi vengono affidati in via esclusiva all’Ispettorato del Lavoro. Parallelamente viene tolta anche la possibilità, fino ad allora prevista, di sottoscrivere contratti per il lavoro all’estero direttamente con i mediatori; in sostanza, la firma del contratto può essere mediata, ma le parti contraenti devono necessariamente essere il lavoratore e l’azienda straniera che intende assumerlo, eliminando la possibilità di contratti siglati direttamente da terzi. La Decisione governativa 823 del 2002 modifica e completa poi la precedente Decisione 1320/2001 prevedendo un cambiamento di denominazione dell’Ufficio Nazionale per il Reclutamento e l’Ingaggio della Forza Lavoro all’Estero, che diviene come già detto Ufficio per la Migrazione della Forza Lavoro[99]. Il cambio di denominazione, che lascia intendere delle attribuzioni più ampie rispetto a quelle precedenti, comporta l’aggiunta di nuove funzioni accanto a quella – che rimane comunque principale – di mediazione. L’Ufficio non si occupa dunque più soltanto degli accordi bilaterali, bensì anche dell’applicazione dei “trattati internazionali firmati in nome della Romania, come anche degli accordi, delle convenzioni e delle intese firmate dal Governo della Romania e dai governi di altri stati” (art. 1). Tenendo in considerazione anche l’elevato afflusso nel Paese di lavoratori stranieri, provenienti in particolare da zone vicine come l’Ucraina e la Repubblica Moldova – soprattutto per quanto riguarda i gruppi di etnia romena – ma anche da altre realtà come quelle cinese e mediorientale, tale istituzione è chiamata anche a occuparsi della questione dell’immigrazione di manodopera in Romania. Lo stesso atto normativo stabilisce inoltre la costituzione di un Centro di Informazione e Documentazione per i Lavoratori Migranti, cui spettano evidentemente funzioni di informazione.

Nel 2004 lo Stato torna a occuparsi dei suoi lavoratori all’estero ampliando le attribuzioni del Ministero del Lavoro, della Solidarietà Sociale e della Famiglia, cui spettano, tra gli altri, i compiti di:

1. promuovere misure tese ad assicurare e proteggere i diritti e le libertà dei cittadini romeni che lavorano all’estero e di prevenire gli abusi cui questi potrebbero essere sottoposti;

2. facilitare il mantenimento di legami permanenti con il Paese di provenienza;

3. assicurare supporto nel caso di vertenze di lavoro;

4. accordare aiuto per la risoluzione di ogni problema con cui potrebbero confrontarsi i lavoratori romeni;

5. monitorare, insieme al Ministero degli Affari Esteri, l’applicazione degli accordi, delle convenzioni e delle intese con altri Stati;

6. promuovere azioni di informazione sui rischi del lavoro illegale[100].

Oltre a organizzare e gestire tutte le attività connesse con il lavoro all’estero, dunque, lo Stato comincia a porre una maggiore attenzione al fenomeno del lavoro illegale e alle problematiche che questo solleva, riconoscendo in tal modo l’esistenza di fatto del fenomeno dell’emigrazione clandestina. Tale atto normativo istituisce anche due nuove strutture, operanti nel quadro del Ministero, ossia il Dipartimento per il Lavoro all’Estero e il Corpo degli Addetti ai Problemi del Lavoro e Sociali, il primo dei quali coordinato da una nuova figura appositamente creata nell’organigramma ministeriale, quella del segretario di Stato, alle cui dipendenze entra anche l’Ufficio per la Migrazione della Forza Lavoro, che vede arricchita a sua volta la propria struttura da due direzioni, la Direzione per la protezione dei diritti dei cittadini romeni che lavorano all’estero e la Direzione per l’evidenza e il monitoraggio. Anche il Corpo degli Addetti ai Problemi del Lavoro e Sociali, chiamato ad “assicurare la rappresentanza ministeriale nel quadro delle missioni diplomatiche, degli uffici consolari e delle altre rappresentanze della Romania all’estero”, entra alle dipendenze del nuovo funzionario previsto dalla 1326/2004. Tale atto legislativo costituisce una vera e propria fase di “crescita” delle autorità romene per quanto riguarda le politiche dedicate all’emigrazione per motivi di lavoro. La presa di coscienza dei problemi riguardanti tale fenomeno, soprattutto in merito all’emigrazione illegale e ai rischi a essa connessi, e lo sforzo di edificazione istituzionale che ne deriva suggeriscono infatti la presa di coscienza da parte di Bucarest di un fenomeno non solo esistente, ma dalle profonde implicazioni per la società romena.

Nel 2005, dopo un iter abbastanza lungo, viene emessa una nuova Decisione governativa, la 412/2005[101], che modifica le attribuzioni del Ministero del Lavoro, della Solidarietà Sociale e della Famiglia e, soprattutto, quelle del Corpo degli Addetti ai Problemi del Lavoro e Sociali. Le modifiche più significative riguardano proprio quest’ultimo ente, al quale vengono attribuite non soltanto le funzioni di supporto ai cittadini romeni che lavorano all’estero per la difesa dei loro diritti, ma anche e soprattutto quelle di combattere il lavoro illegale all’estero, che sta alla base del fenomeno delle migrazioni clandestine. Secondo la norma della Decisione governativa del 2005, al personale del Corpo degli Addetti ai Problemi del Lavoro e Sociali spettano le seguenti attribuzioni:

a) sostegno e protezione degli interessi dei lavoratori romeni all’estero;

b) promozione e rispetto dei diritti dei lavoratori romeni all’estero, in conformità con le leggi e le normative internazionali, con i valori dei diritti umani, della libertà e della democrazia;

c) lotta contro il lavoro illegale dei cittadini romeni all’estero;

d) attivazione del mercato del lavoro romeno dove funziona nei confronti dei sollecitanti romeni;

e) assicurazione di un legame permanente tra i lavoratori stranieri all’estero e le istituzioni e le strutture del Ministero del Lavoro, della Solidarietà Sociale e della Famiglia di Romania;

f) messa in evidenza dell’attività di rappresentanza degli interessi del Ministero del Lavoro, della Solidarietà Sociale e della Famiglia e dei lavoratori romeni posta in essere dai funzionari delle diverse rappresentanze diplomatiche.

II.2.5 Accordi bilaterali in materia di circolazione di forza-lavoro

Benché l’idea di proteggere i cittadini romeni che lavorano all’estero attraverso tale strumento appaia in maniera esplicita, a livello legislativo, fin dalla fine degli anni Novanta e lo Stato romeno abbia dato vita a un apparato istituzionale tale da facilitare e gestire la migrazione legale per motivi di lavoro, il numero di accordi bilaterali può essere considerato ridotto. La prima convenzione firmata dal governo di Bucarest è quella del 1991 con la Germania, Paese che ha costituito – come visto – uno dei partner della Romania in ambito di emigrazione fin dal periodo comunista. L’oggetto di tale Convenzione è costituito dall’invio di cittadini romeni, dipendenti di aziende con sede in Romania, a lavorare in Germania. Il numero di lavoratori romeni che annualmente possono emigrare in Germania utilizzando il quadro normativo offerto dalla Convenzione è stabilito in 2.000 unità, con un’aggiunta di altri 1.000 lavoratori per i primi tre anni di validità della Convenzione stessa. Il numero di cittadini romeni cui sarà permesso l’ingresso nel Paese di destinazione verrà successivamente armonizzato con l’evoluzione del mercato del lavoro tedesco; in tal senso, una formula specifica adatta il volume dei permessi rilasciati all’evoluzione del tasso di disoccupazione. Nel 1992 la Romania firma un’altra convenzione con la Germania. Il nuovo atto prevede che un contingente di 500 persone possa spostarsi ogni anno da uno dei due Paesi verso l’altro, istituendo così un regime di reciprocità. L’intesa è rivolta però a una categoria particolare, quella di lavoratori di età compresa tra i 18 e i 35 anni, con una preparazione professionale già soddisfacente e che svolgeranno, nel Paese di destinazione, un’attività temporanea finalizzata al perfezionamento professionale e linguistico. Il periodo di permanenza per tale fattispecie è limitato a un anno, con una possibilità di proroga di sei mesi. Nel 1999 viene siglato un nuovo accordo romeno-tedesco destinato ai lavoratori stagionali con un periodo di lavoro all’estero di tre mesi nel corso dell’anno solare. L’intesa è estremamente dettagliata e contiene delle norme specifiche relative alle condizioni di lavoro, alla previdenza sociale, all’alloggio e a tutti quegli aspetti fondamentali nel caso di attività lavorative a carattere stagionale.

Accanto a questi tre accordi con la Germania, gli anni Novanta vedono la stipula di intese similari soltanto con il Libano, che però non costituisce una delle mete privilegiate dell’emigrazione romena. Tale accordo è infatti piuttosto un accordo di principi che non uno dall’effettivo valore; esso non precisa alcun tipo di attività lavorativa, limitazioni di numero e qualsiasi altra norma che possa valere a renderlo più dettagliato.

Gli sforzi diplomatici per la conclusione di accordi bilaterali in materia di circolazione di forza-lavoro si intensificano nel periodo 2000-2002, in concomitanza con l’aumento esponenziale delle partenze dalla Romania. In tal modo cinque nuovi Paesi – Lussemburgo, Portogallo, Spagna, Svizzera e Ungheria – diventano partner di Bucarest. La connessione tra i Paesi con cui vengono siglati tali accordi e il fenomeno migratorio per motivi di lavoro comincia così a divenire più evidente; se da una parte, infatti, Lussemburgo e Svizzera non costituiscono oggetto di emigrazione massiccia, nel caso di Portogallo, Ungheria e soprattutto Spagna ci si trova di fronte a destinazioni per così dire “attive”. Un aspetto importante di tali accordi riguarda lo scambio di stagisti. L’accordo con la Svizzera (contingentato a 150 individui all’anno), quello con il Granducato di Lussemburgo (massimo 35 stagisti all’anno) e uno dei due accordi con l’Ungheria (700 stagisti all’anno) sono infatti rivolti a persone con età compresa tra i 18 e i 35 anni, che abbiano un minimo di due anni di formazione professionale e che decidano di recarsi nel Paese di destinazione allo scopo di migliorare e perfezionare le proprie capacità professionali, le conoscenze culturali e quelle linguistiche.

Accanto agli accordi riguardanti lo scambio di stagisti, nel 2001 viene siglato anche un accordo, sempre con l’Ungheria, riguardante i lavoratori stagionali. Il numero dei lavoratori che, sulla base di tale accordo, possono recarsi a lavorare oltre frontiera per un periodo massimo di sei mesi nel corso dell’anno calendaristico, è relativamente alto – 8.000 unità – soprattutto se comparato con quello previsto dall’analogo accordo romeno-tedesco. L’accordo con il Portogallo permette invece l’assunzione di lavoratori romeni a tempo determinato – massimo un anno, con possibilità di prolungamento – senza però stabilire alcun vincolo quantitativo. Rispetto agli altri accordi precedenti, quello siglato con le autorità portoghesi prevede l’obbligo, per la parte romena, di rispondere alle richieste di assunzione di lavoratori da parte di aziende lusitane mediante offerte che devono superare una previa selezione. Tale compito di selezione spetta, secondo la norma dell’accordo, alla Direzione Generale per la Forza-Lavoro del Ministero del Lavoro e della Solidarietà Sociale di Bucarest, cui spetta il compito di raccogliere le richieste provenienti dalle aziende portoghesi e quindi di trasmetterle, per la vera e propria selezione, all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione della Forza-Lavoro, che a sua volta deve ritrasmettere le liste con le richieste selezionate alla Direzione ministeriale, che a sua volta le invia all’ambasciata di Portogallo a Bucarest. Si tratta dunque di una procedura assai complicata, ma che pure risulta importante nell’analisi storica dell’evoluzione delle politiche governative relative all’emigrazione per motivi di lavoro poiché suggerisce, per la prima volta, la necessità di una struttura amministrativa romena specificamente dedicata a tale soggetto.

L’accordo più rilevante siglato in questo periodo è senz’altro quello che regola il flusso di lavoratori romeni verso la Spagna, che rappresenta già una delle mete più importanti dell’emigrazione romena per motivi di lavoro, benché tale flusso sia fondato prevalentemente su reti private. L’atto, siglato nel 2002, è relativamente complesso e riguarda diverse categorie di lavoratori: lavoratori stabili (con un’anzianità di permanenza di almeno un anno), stagionali (massimo nove mesi all’anno), stagisti (soggetti con età compresa tra i 18 e i 35 anni e un periodo di residenza all’estero di massimo dodici mesi), società che spostano forza-lavoro sulla base di contratti di prestazione di servizi tra i due stati. Gli spostamenti non sono generalmente contingentati, con la pure importante eccezione degli stagisti, il cui numero massimo è fissato a 50 individui all’anno; al contrario, si prevede una formula generale che rimanda alle necessità del mercato del lavoro dei rispettivi paesi. L’accordo con la Spagna è molto più dettagliato per quanto attiene alle procedure e ha un campo di azione più vasto; per la prima volta si fa riferimento a una cooperazione interstatale volta a controllare la circolazione delle persone, con particolare attenzione alla “lotta contro l’immigrazione illegale, la falsificazione dei documenti e, soprattutto, contro il traffico di esseri umani”. Tale accordo introduce importanti innovazioni anche in merito alle norme che regolano il ritorno in patria dei lavoratori stagionali e delle sanzioni previste nel caso di superamento dei limiti legali di permanenza sul territorio dello Stato di destinazione. L’accordo con la Spagna sembra dunque aprire una nuova prospettiva sul fenomeno migratorio: processo complesso, di difficile controllo, di ampie dimensioni e con fenomeni criminali associati, esso richiede azioni vieppiù concertate tra diverse istituzioni del paese di origine e di quelli di destinazione.

L’accordo con la Spagna è l’ultimo di tale fase. L’accordo successivo con la Francia, siglato nel 2004, arriva in un momento in cui tale paese non rappresenta più una destinazione preferenziale dell’emigrazione romena. Tale atto, limitato allo scambio di stagisti tra i due paesi – 300 unità all’anno per un periodo di tempo compreso tra i tre e i dodici mesi, prolungabile fino ai 18 mesi complessivi –, introduce però una novità importante designando l’Ufficio per la Migrazione della Forza-Lavoro quale istituzione cui spetta il compito di supervisionare l’applicazione dell’accordo. Il 2005 vede la stipula di un nuovo accordo – il quarto nel giro di quattordici anni – con la Germania che allarga gli ambiti per il reclutamento della forza-lavoro romena per il mercato tedesco.

In tale ambito l’Italia, nel frattempo divenuta di gran lunga il più importante paese di destinazione dell’emigrazione dalla Romania[102], non risulta presente fino al 2006, quando viene siglato il primo accordo bilaterale tra i due governi, il quale però ha più un carattere di dichiarazione di principio che non di vera e propria regolamentazione del fenomeno migratorio. Esso afferma infatti la necessità di monitorare lo scambio di forza-lavoro tra i due paesi affinché questo si mantenga entro i limiti dettati dalla legge dei rispettivi paesi, sottolineando la necessità di una sempre più stretta collaborazione bilaterale, senza però entrare nel dettaglio delle misure concrete finalizzate a tale attività di controllo, lasciata alla discrezionalità delle istituzioni dei due paesi. Tale accordo, inoltre, ha anche una durata di applicabilità assai limitato; firmato nell’ottobre 2005 e ratificato dal Parlamento di Bucarest nell’aprile 2006[103], esso rimane valido sostanzialmente per un anno. Le direttive europee in merito alla libera circolazione dei cittadini romeni e bulgari prevedono infatti un regime di moratoria di tre anni da applicare a discrezione dei singoli Stati membri; mentre alcuni paesi, come per esempio la Francia, decidono fin dal 1 gennaio 2007, data dell’ingresso di Romania e Bulgaria nell’UE, di applicare tale regime transitorio, l’Italia rimane inizialmente alla finestra, salvo intervenire in un secondo momento, a quasi un anno di distanza dall’allargamento dell’Europa alla Romania, sull’onda dell’emotività generata dai fatti di cronaca, a loro volta cavalcati dai mass-media e da diverse forze politiche impegnate in campagna elettorale[104].

II.2.6 Diritto di cittadinanza e partecipazione al voto

L’alto numero di romeni all’estero ha costituito, fin dal 1990, un nuovo problema nell’agenda delle istituzioni e delle forze politiche di Bucarest. Il regime post-comunista ha affrontato fin dall’inizio la questione della cittadinanza dei milioni di elementi etnicamente romeni già cittadini di Stati vicini. Su tale problematica hanno focalizzato la loro attenzione diversi attori politici a livello transazionale, dai partiti e movimenti romeni – interessati ad accrescere il loro consenso mediante il ricorso a orientamenti più o meno nazionalistici – alle organizzazioni rappresentative degli emigranti, interessate ad aumentare il loro peso specifico nel paese d’origine[105]. Nonostante ciò, non sempre i messaggi retorici si traducono in politiche reali, né essi sono raccolti dalle istituzioni politiche. L’effettiva partecipazione di residenti all’estero alle vicende politiche interne incontra dunque, in Romania come altrove, un ostacolo materiale nell’incapacità e nella mancanza di volontà da parte delle autorità di assicurare un reale e attivo diritto di cittadinanza a quanti abbiano stabilito la loro residenza all’estero. Come riconosce Eva Østergaard-Nielsen, esiste infatti una differenza netta tra la “percezione” dei cittadini all’estero e la mancanza di efficacia delle politiche loro rivolte[106].

In via preliminare occorre però fare una precisazione. Parlare di romeni all’estero significa dover fare una differenziazione tra minoranze nazionali all’interno di paesi vicini (Repubblica Moldova, Ucraina, Serbia, ecc.), soggetti che durante gli anni della Guerra Fredda hanno trovato rifugio all’estero perdendo automaticamente la cittadinanza d’origine ed emigranti che, a partire dal 1990, hanno deciso di lasciare il paese per motivi diversi – in gran parte economici ma non solo – e che hanno stabilito la loro residenza all’estero mantenendo al tempo stesso la cittadinanza e dunque la pienezza dei loro diritti civili e politici. Al fine di risolvere il problema dei molti romeni fuoriusciti durante gli anni del regime di socialismo reale e di concedere un riconoscimento alle minoranze di etnia romena al di fuori dei confini patri, il governo post-rivoluzionario approva già nel 1991 una nuova legge sulla cittadinanza[107]. Tale atto legislativo riconosce dunque formalmente lo status di cittadini a quanti, fino a quel momento, non lo avevano avuto o lo avevano perso, ma ciò non produce sostanziali cambiamenti, eccezion fatta per l’iniziale impegno politico di alcuni esuli ritornati in patria dopo la fine del regime[108]. Soprattutto, manca da parte delle autorità di Bucarest una strategia coerente finalizzata a sviluppare i legami con gli espatriati, generalmente in contrasto con la leadership dell’epoca, imperniata sulla figura di Ion Iliescu, considerato – e a ragione – un retaggio del passato regime, di cui era stato un esponente di primo piano.

Benché il tema della presenza di una nutrita schiera di romeni al di fuori dei confini nazionali rimanga presente nei dibattiti politici per tutta la prima metà degli anni Novanta, fino al 1995 non viene creata alcuna istituzione specificamente dedicata a mantenere contatti stabili con essa. Soltanto in quell’anno, che corrisponde con la fine del primo mandato presidenziale di Iliescu, viene costituito il Consiglio per i Problemi dei Romeni all’Estero, organismo dalle funzioni puramente consultive subordinato al Primo Ministro e composto dai segretari di Stato dei ministeri dell’Educazione, degli Affari Esteri e della Cultura, cui spetta il compito di predisporre le strategie volte a preservare l’identità nazionale dei diversi gruppi di romeni all’estero[109]. Durante la campagna elettorale del 1996, in occasione delle elezioni presidenziali, il futuro presidente Emil Constantinescu si riferisce per la prima volta ai concittadini della diaspora come a un gruppo che dovrebbe giocare un ruolo attivo nella determinazione della politica nazionale. Le dichiarazioni di Constantinescu si concretizzano nel 1998 nella costituzione del Dipartimento per le Relazioni con i Romeni all’Estero, istituito nel quadro del Ministero degli Affari Esteri[110]. La legge 150/1998, che istituisce il Dipartimento e una serie di altri istituti tra cui un Consiglio Interministeriale per il Supporto alle Comunità Romene all’Estero, ha però ancora un raggio d’azione limitato. Essa infatti tende ad assicurare un sostegno alle comunità di romeni all’estero per quanto riguarda l’educazione nella lingua materna e il supporto a iniziative culturali nei paesi di destinazione, senza prevedere alcuna misura concreta volta a garantire una qualsiasi partecipazione politica attiva da parte degli emigranti, tanto nel paese di origine quanto in quello di destinazione.

Tale tendenza comincia a cambiare dal 2000, anche e soprattutto in conseguenza del forte aumento di migranti dalla Romania che giungono nei paesi occidentali. Tale aumento quantitativo comporta anche un cambiamento nella struttura del fenomeno migratorio, che da circolare diviene sempre più permanente[111], assumendo al contempo la forma delle reti migratorie, con un gruppo di “pionieri” che raggiungono i paesi di destinazione tra il 1994 e il 1998 e che creano le prime strutture che facilitano, in un secondo momento, l’inserimento di membri provenienti dalle stesse zone. In tal modo è, per esempio, possibile spiegare la forte appartenenza regionale delle comunità romene presenti in Italia (in maggioranza provenienti dalla Moldavia) e in Spagna (prevalentemente originari della Muntenia). Quanto detto porta le autorità di Bucarest a siglare quegli accordi bilaterali di cui si è parlato nel paragrafo precedente, ad accrescere le attività destinate alla protezione dei diritti dei lavoratori romeni e a predisporre una serie di istituzioni destinate a mantenere i legami con le comunità all’estero. Tale attività, che pure funziona in maniera tutt’altro che perfetta, è però destinata a raggiungere soltanto un numero ridotto di soggetti, in quanto la maggioranza di essi vive in una condizione di illegalità nei paesi di destinazione[112].

Gli anni immediatamente successivi vedono in Romania un consistente aumento dell’interesse pubblico verso i problemi – non solo economici ma anche culturali e identitari – delle comunità di migranti, che però non si traducono in atti concreti. Le decisioni governative che modificano a più riprese le attribuzioni del Dipartimento per le Relazioni con i Romeni all’Estero e le varie leggi per il sostegno ai romeni all’estero non apportano infatti cambiamenti sostanziali al regime stabilito dalla legge 150/1998. Soltanto la legge 299/2007 introduce un elemento di novità, costituito dal collegamento tra lo status di “romeno all’estero” e il riconoscimento in quanto tale di alcuni diritti[113]:

Art. 1. La presente legge regolamenta:

a) i diritti delle persone di etnia romena, come di quelli che appartengono al filone culturale romeno, al di fuori dei confini della Romania… avendo come scopo il mantenimento, la promozione e l’affermazione della loro identità culturale, etnica, linguistica e religiosa

Tali diritti sono poi precisati nello specifico nel successivo art. 4 della stessa legge: ingresso gratuito, in Romania, in tutte le istituzioni pubbliche di cultura, nei monumenti storici e nei siti di interesse archeologico, artistico e architettonico dello Stato; studiare in Romania; richiedere e ottenere, mediante concorso, borse di studio in Romania per approfondire le conoscenze linguistiche; partecipare a stage di perfezionamento in Romania; richiedere allo Stato romeno una sovvenzione per l’acquisto di volumi e manuali in lingua romena; di richiedere un sostegno finanziario per la costruzione o la ristrutturazione di luoghi di culto nel paese di cittadinanza/residenza; sollecitare un aiuto finanziario o materiale per la costruzione o la ristrutturazione di istituzioni educative in lingua romena nel paese di cittadinanza/residenza; richiedere alla Romania sostegno finanziario o materiale per l’organizzazione di eventi culturali, artistici o religiosi, per l’organizzazione di corsi miranti alla diffusione della lingua romena e per garantire il funzionamento delle istituzioni culturali dei romeni all’estero; ottenere visti gratuiti per la partecipazione ad attività miranti alla difesa e all’affermazione dell’identità culturale, etnica, linguistica e religiosa romene organizzate in Romania; ottenere un sostegno per pubblicazioni e prodotti audio-visuali in lingua romena, nonché per la costituzione di organi di informazione nella stessa lingua; ricevere le onorificenze dello Stato romeno per la promozione dei valori culturali, spirituali e scientifici romeni. L’atto legislativo prevede anche una serie di misure volte alla diffusione della cultura romena tra le diverse comunità all’estero, in particolare per quanto riguarda le generazioni più giovani, tra cui anche le seconde generazioni che cominciano a essere sempre più numerose. Vengono inoltre assunte alcune misure simboliche, come il Congresso dei romeni all’estero, l’istituzione del Giorno dei Romeni all’Estero previsto per il 30 novembre (art. 9) e di un Museo dei Romeni all’Estero, con sede a Bucarest (art. 10).

La legge, inizialmente proposta dal Partito Social-Democratico all’epoca all’opposizione, genera uno scontro politico tra i diversi partiti e il governo, di orientamento liberale. Le critiche maggiori alla legge vengono dall’ultranazionalista Partito della Grande Romania, il quale la definisce troppo debole, soprattutto se comparata con l’analoga legge varata dal governo ungherese a difesa della cultura magiara oltre confine, diretta in particolare alla numerosa comunità transilvana; a tali critiche si sommano poi quelle dei rappresentanti parlamentari delle varie minoranze nazionali di Romania, escluse dall’accesso ai fondi stanziati per la diffusione della loro cultura oltre confine[114]. Tale legge raccoglie un debole consenso neanche tra i cittadini romeni stabilitisi all’estero, poiché essa sembra rivolgere la propria attenzione – secondo una linea ormai divenuta tradizionale – più alle problematiche che interessano le minoranze nazionali romene nei paesi vicini che a quelle dei milioni di emigranti dalla Romania.

Si può dunque assistere a una lunga e sinuosa evoluzione legislativa, in cui le dichiarazioni dei soggetti politici romeni sono state spesso contraddittorie. Alcuni di essi hanno assunto, spesso in ottica demagogica, ma talvolta anche in maniera convinta, una posizione secondo cui i romeni all’estero dovrebbero essere messi nelle migliori condizioni per poter esercitare il loro diritto al voto e contribuire alla determinazione della politica nazionale. Altri importanti soggetti politici, pur riconoscendo la validità della posizione precedentemente espressa, hanno posto l’accento sullo scarso interesse che le comunità di romeni all’estero mostrano allorché si tratta di rendere effettiva tale partecipazione. Va inoltre aggiunto che la classe dirigente romena non ha ancora ben chiaro quale via seguire, se quella di cominciare a considerare i suoi emigranti come cittadini romeni ormai stabilitisi in via definitiva all’estero, oppure tentare di ricondurli nel paese d’origine.

Proprio il 2008 sembra ben esemplificare tale schizofrenia delle autorità di Bucarest. Nel corso della primavera, infatti, il Ministero degli Affari Esteri e quello del Lavoro e della Solidarietà Sociale hanno lanciato due “fiere del lavoro”, a Roma e Torino, per favorire il contatto tra imprese romene in cerca di manodopera e lavoratori emigranti interessati a tornare in patria. Benché si sia risolta in un fiasco totale – cui è seguito un aspro confronto politico interno tra governo e partiti dell’opposizione –, l’iniziativa partiva dalla premessa di voler tentare di favorire un possibile “ritorno a casa” di lavoratori più o meno qualificati al fine di trovare una soluzione al problema della mancanza di manodopera sul mercato del lavoro interno, fenomeno che ha portato, per esempio, all’aumento dell’occupazione di forza-lavoro straniera. A pochi mesi di distanza il centro del problema sembra invece essersi spostato. La crisi economica che, partita dagli Stati Uniti, sembra aver colpito come un uragano l’Europa, ha lasciato – soprattutto in Spagna, ma anche negli altri paesi del Vecchio Continente – molti senza lavoro, e tra questi anche molti emigranti romeni, che cominciano a tornare in patria finendo però per incidere su un sistema che, seppure segni ancora un trend economico positivo, rischia di subire i contraccolpi della crisi; l’attenzione delle autorità e dei mass-media si è dunque concentrata sui problemi che un possibile ritorno massiccio di emigranti potrebbe generare al sistema-paese, sia a livello sociale che economico. Un tale “contro-esodo”, infatti, non significherebbe soltanto un aumento di costi in termini sociali, legati in gran parte alla difficoltà di reinserimento, ma anche la perdita di una fetta significativa del prodotto nazionale lordo, costituita dalle rimesse dall’estero, che negli anni passati hanno aiutato in maniera significativa il decollo dell’economia romena e che, venendo meno, potrebbero accrescere gli effetti della crisi economica.

Intanto, da Bucarest si continua a rafforzare il diritto al mantenimento e all’espressione della propria identità nazionale da parte delle comunità di romeni all’estero. La legge 299/2007 in materia di sostegno ai romeni all’estero riconosce tale diritto a tutti i migranti, compresi quanti hanno stabilito la loro residenza all’estero e dunque hanno in qualche modo optato per un progetto migratorio di lunga durata, se non definitivo. Tale appartenenza culturale e nazionale non sembra però tradursi in una piena cittadinanza. Da molte parti viene denunciato il fatto che le autorità romene mettano a disposizione, per l’espletamento del diritto di voto da parte dei cittadini stabilitisi all’estero, strutture insufficienti, mentre a livello ufficiale si lamenta il fatto che pochi sono i romeni che, il giorno delle elezioni, si recano a votare presso le strutture predisposte. Il 2007 vede la presentazione, da parte del ministro degli Affari Esteri, di un progetto di legge riguardante l’introduzione del voto per corrispondenza per i cittadini residenti all’estero. Tale progetto, che si perde nel corso dell’iter parlamentare, scatena però un vespaio; molti ritengono una norma di civiltà l’introduzione di uno strumento che assicurerebbe una più facile partecipazione al voto di una fetta consistente di cittadini – tra il 10 e il 15% circa della popolazione – che altrimenti sarebbero posti in una situazione di difficoltà nell’espressione effettiva dei loro diritti politici, altri criticano tale proposta avanzando come giustificazione il rischio di brogli che potrebbero essere facilmente commessi proprio mediante tale strumento.

Tale regime viene modificato in maniera radicale dalla nuova legge elettorale, promulgata dal Parlamento nel marzo 2008, che introduce per la prima volta nella storia della Romania un sistema uninominale con correzioni proporzionali a livello nazionale[115]. Tale sistema è stato fortemente voluto da una parte consistente della società civile per tentare di moralizzare le istituzioni rappresentative del paese I sistemi uninominali infatti, favorendo un contatto diretto tra elettore e candidato, mettono l’accento più su quest’ultimo che non sul partito cui appartiene. In tal modo si dovrebbe giungere a un ridimensionamento, se non alla scomparsa, del sistema dei partiti, che finiscono per imporre sempre gli stessi personaggi, nonostante il basso grado di popolarità di cui questi godono in Romania[116].

Accanto all’introduzione del sistema uninominale, la nuova legge elettorale introduce un’ulteriore, fondamentale innovazione. Essa prevede infatti un’apposita circoscrizione elettorale per i cittadini romeni residenti all’estero (art. 10), i quali eleggono un totale di quattro deputati e due senatori (art. 11, comma 2, punto f), di cui la metà nel collegio uninominale riservato ai romeni residenti in paesi europei e l’altra metà in un collegio per i residenti in tutti gli altri continenti. La costituzione di circoscrizioni estere sarebbe stata implicita, secondo i promotori della legge, nello stesso sistema elettorale uninominale; esso stabilisce infatti un legame diretto tra elettore ed eletto, per cui sarebbe stato contrario allo spirito della riforma continuare a conteggiare i voti espressi dai romeni all’estero nella circoscrizione di Bucarest, come avvenuto fino a quel momento. Il problema maggiore è dato dalla predisposizione delle infrastrutture dedicate al voto. La legge prevede in maniera espressa che i cittadini residenti o domiciliati all’estero possano esprimere il loro diritto al voto presso le sedi diplomatiche nel paese in cui si trovano; accanto a tali sezioni, nei paesi di residenza possono esserne aperte delle altre, previo accordo tra le autorità romene e quelle del rispettivo paese (art. 18, comma 8). Va però notato che le sedi consolari e le ambasciate, pure situate nella capitale e nelle città più rappresentative per le comunità di migranti, sono spesso distanti dai luoghi di residenza di molti, disincentivando in tal modo la partecipazione al voto; se ciò risulta poi un problema nei paesi europei, lo è ancor più in paesi di grandissime dimensioni, come il Canada, gli USA o l’Australia, dove spesso le sezioni elettorali si trovano a migliaia di chilometri di distanza dalla zona di residenza.

Un altro tema che ha sollevato molte proteste tra i romeni all’estero è costituito dall’esiguo numero di rappresentanti che risulteranno eletti nella circoscrizione “Estero” (circoscrizione n. 43) rispetto al numero totale di elettori. Circa il 12% della popolazione romena esprimerà intorno all’1,2% dei membri che comporranno il futuro Parlamento, con un’evidente sottorappresentazione che ha fatto parlare molti, all’estero e in patria, di una “sospensione di fatto” del voto degli emigranti. Il quotidiano indipendente progressista Adevărul (“La Verità”), tra i più letti di Romania, fornisce in tal senso, in un articolo del 18 luglio 2008, alcune cifre; gli abitanti di Bucarest – complessivamente 2.070.235 – eleggeranno 40 parlamentari (28 deputati e 12 senatori); lo stesso discorso vale per il più piccolo distretto di Romania, quello di Covasna, in cui i 200.000 cittadini lì residenti saranno rappresentati in Parlamento da un numero di deputati e senatori pari a quello espresso dagli oltre due milioni di romeni residenti oltre frontiera. Mentre dunque in Romania 70.000 cittadini eleggono un deputato, il rapporto cresce a 1/400.000 nel caso di cittadini residenti all’estero. L’articolo continua poi con un’intervista a un importante leader della comunità romena di Spagna, William Brânză, candidato a un posto in Parlamento, il quale riconosce che sei parlamentari sono troppo pochi: «Solo in Spagna vivono 780.000 romeni. Spagna e Italia avrebbero dovuto avere ciascuna minimo quattro deputati e un senatore»; lo stesso Brânză passa poi a criticare la delimitazione dei collegi: «Dovremmo avere – dice – un deputato per la Spagna, uno per l’Italia, un deputato per il resto d’Europa, comprese Germania e Francia, e un deputato per l’America, il Giappone e il Canada. Un senatore dovrebbe occuparsi di Spagna, Italia e del resto d’Europa, mentre il secondo di America, Canada e resto del mondo. Come potrà occuparsi un solo uomo di 600.000 persone, numero ufficiale di romeni residenti in Italia?»[117]. A tali critiche ha tentato di rispondere il presidente della Commissione per l’elaborazione del Codice elettorale, il quale ha precisato che, nella determinazione del numero di parlamentari che saranno eletti nella circoscrizione “Estero” si è tenuto conto dei dati relativi all’effettiva partecipazione al voto dei romeni all’estero nel corso degli anni: «Nel più piccolo distretto di Romania, Covasna, si recano al voto in media 80.000 – 100.000 cittadini, e questi avranno quattro deputati e due senatori. Nella diaspora, non hanno mai votato più di 55.000 romeni»[118]. A sua volta Cristian Pârvulescu, uno dei promotori della legge, riconosce che, date le condizioni attuali, il numero di parlamentari che rappresenteranno i romeni all’estero è assolutamente equo: «Per i romeni all’estero la partecipazione al voto rappresenta un lusso. Essa presuppone costi molto elevati, poiché non possono esprimere il loro voto se non presso le ambasciate e i consolati. Quando verranno assicurate anche altre condizioni, come il voto elettronico o per corrispondenza, allora potremo tornare a discutere l’intera questione della rappresentanza»[119].

Al di là del dibattito che si è aperto sull’opportunità di concedere il diritto di eleggere dei propri rappresentanti anche ai romeni all’estero e sui limiti della legge, è certo che essa va a colmare un vacuum importante e apre la strada per una maggiore partecipazione politica transnazionale da parte dei romeni emigrati. Un’altra domanda potrebbe porsi circa le motivazioni che hanno spinto le autorità romene a tale passo. Sicuramente un ruolo importante è stato giocato dall’elevato numero, cresciuto in maniera esponenziale con le regolarizzazioni successive all’ingresso della Romania nell’UE e all’assunzione da parte dei cittadini romeni dello status di comunitari, di residenti all’estero, spesso non interessati a recarsi al voto per eleggere parlamentari con i quali non avevano alcuna forma di contatto e assolutamente non rappresentativi dei loro interessi e delle loro necessità. Lo status di migrante comporta infatti dei bisogni del tutto particolari, che possono essere rappresentati soltanto da chi conosca tale situazione e abbia un legame diretto con la comunità. Un ruolo importante può però essere stato giocato dalla considerazione che, se non si fosse proceduti lungo questa via, i romeni all’estero avrebbero potuto esercitare un’influenza di non poco conto sul sistema politico e partitico della Romania, su cui avrebbero potuto scaricare anche la loro maggiore carica di criticità[120]; prevedendo una circoscrizione estera che esprima un numero assai ridotto di parlamentari si è in sostanza voluta creare una sorta di “riserva indiana”, dando la possibilità ai romeni residenti all’estero di esprimere il loro voto e di eleggere propri rappresentanti senza che questi possano influire in maniera determinante sull’attività del Parlamento e sulla determinazione della politica nazionale.

L’analisi del comportamento elettorale, caratterizzato da scarsa affluenza alle urne, consente di comprendere parzialmente il comportamento politico delle comunità di romeni all’estero. In primo luogo sembra confermata la tendenza al disinteresse nei confronti della politica in generale. Le elezioni parlamentari tenutesi il 30 novembre 2008 hanno fatto registrare, infatti, un bassissimo livello di partecipazione – inferiore al 40% secondo gli ultimi dati ufficiali – in Romania e uno ancora più basso nella circoscrizione estero, dove in totale hanno votato, secondo i dati forniti dal Ministero degli Affari Esteri – incaricato di organizzare e gestire il voto dei romeni all’estero – circa 24.000 persone suddivise nelle 221 sezioni organizzate. Benché non sia possibile stabilire il numero esatto dei romeni con diritto di voto all’estero[121], è certo che il numero dei votanti sia assolutamente irrilevante rispetto al numero complessivo di quanti potenzialmente avrebbero diritto al voto. Quello che dunque risulta importante ai fini della presente analisi è l’elevatissimo livello di disinteresse che i romeni d’Italia in generale hanno nei confronti della politica del loro paese, avvertita come lontana, distratta e corrotta.

II.3 Caratteristiche dell’immigrazione romena in Italia

Tra il 1° gennaio 2007 e il 1° gennaio 2008 si registra una crescita esponenziale – almeno a livello di dati ufficiali – della presenza romena in Italia, che fa segnare un incremento di 283.078 unità, pari a un aumento dell’82,7%[122]. Anche se gran parte di tale cifra non è determinata da nuovi ingressi, quanto piuttosto da regolarizzazioni di precedenti situazioni di irregolarità, il dato che ne emerge colloca la comunità romena al primo posto per presenze in Italia, seguita nell’ordine da Albania, Marocco, Cina e Ucraina. Secondo le stime Istat pubblicate nell’ottobre 2008, quasi la metà degli stranieri residenti in Italia (1.616.000 unità, pari al 47,1% del totale) proviene dai paesi dell’Est europeo; di questi, 839.000 (24,4% del totale) appartiene a paesi non comunitari (in prevalenza Albania, Ucraina, Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, Repubblica Moldova), mentre 777.000 a uno dei paesi di nuovo accesso, ossia a quei paesi che sono entrati a far parte dell’UE a seguito degli allargamenti del 2004 e del 2007. Tra questi ultimi, l’80,44%, pari a 625.278 unità, è cittadino romeno.

Tabella 4. Popolazione straniera residente per paese di cittadinanza al 1° gennaio 2007 e 2008. Primi 16 paesi

|1° gennaio 2007 |1° gennaio 2008 |

|Cittadinanza |Totale |Cittadinanza |Totale |

|Albania |375.947 |Romania |625.278 |

|Marocco |343.228 |Albania |401.949 |

|Romania |342.200 |Marocco |365.908 |

|Cina Rep. Pop. |144.885 |Cina Rep. Pop. |156.519 |

|Ucraina |120.070 |Ucraina |132.718 |

|Filippine |101.337 |Filippine |105.675 |

|Tunisia |88.932 |Tunisia |93.601 |

|Macedonia |74.162 |Polonia |90.218 |

|Polonia |72.457 |Macedonia |78.090 |

|India |69.504 |India |77.432 |

|Ecuador |68.880 |Ecuador |73.235 |

|Perù |66.506 |Perù |70.755 |

|Egitto |65.667 |Egitto |69.572 |

|Serbia e Montenegro |64.411 |Rep. Moldova |68,591 |

|Senegal |59.857 |Serbia e Montenegro |68.542 |

|Sri Lanka |56.745 |Senegal |62.620 |

Fonte: Istat

II.3.1 Caratteristiche della presenza in Italia fino all’adesione della Romania all’UE

Tra Romania e Italia esiste dunque un forte potere di attrazione e compenetrazione che fa della prima un enorme serbatoio di manodopera e una meta per la delocalizzazione delle imprese italiane[123], e della seconda il più importante paese di accoglienza di lavoratori romeni. Questi erano, nel 1990, assai scarsi, raggiungendo le circa 8.000 unità, per diventare nel corso degli anni Novanta circa 50.000 e superare, già nel 2002, le 100.000 unità. Il provvedimento del 2002 vede un notevole aumento delle domande di regolarizzazione presentate dai datori di lavoro italiani, che ammontano a circa 700.000. Per la prima volta si assiste a una forte concentrazione geografica dell’origine dei migranti, provenienti per il 60% da paesi dell’Est europeo e per il 21% del totale dalla sola Romania[124].

Alla fine del 2003 la Romania risulta essere per la prima volta il paese maggiormente rappresentato tra gli stranieri titolari di permesso di soggiorno, superando in tal modo comunità di più antica presenza – come quelle albanese e marocchina – grazie a un tasso di incremento annuo del 150%[125]. Altre 130.000 domande di assunzione vengono presentate in occasione del decreto flussi del 2006.

La motivazione più importante della presenza romena in Italia è costituita senza dubbio da quella lavorativa; secondo i dati forniti dall’Inail per il 2007, i romeni assicurati sono stati oltre 600.000[126], a cui vanno poi aggiunti i lavoratori autonomi, i soggetti ancora in cerca di occupazione e quanti hanno trovato un impiego nel settore informale, in occupazioni casuali basate su rapporti di parentela o personali e sulle relazioni sociali piuttosto che su accordi contrattuali.

Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, alla fine del 2006 – immediatamente prima dell’ingresso della Romania nell’UE e l’acquisizione dello status di comunitari da parte dei suoi cittadini – i romeni erano prevalentemente presenti nelle regioni settentrionali (59,5%), con un decremento progressivo man mano che si procede verso Sud (36,9% al Centro, 3,6% al Meridione). La regione maggiormente abitata da residenti romeni risultava essere il Lazio, che accoglieva il 22,2% dei 342.200 residenti romeni in Italia[127]. La maggioranza dei romeni emigrati in Italia proviene dalla regione della Moldavia; collocata nella parte nord-orientale del paese, questa regione è una delle più povere di Romania. Secondo alcuni autori, esisterebbe un rapporto direttamente proporzionale tra flussi finanziari dall’Italia e flussi migratori dalla Romania[128]. In tale ottica trova giustificazione il fatto che proprio la Moldavia, regione in cui il passato regime comunista aveva favorito lo sviluppo di industrie tessili e calzaturiere, sia divenuta dopo il 1989 una delle zone di maggiore investimento da parte di piccole e medie imprese italiane, che hanno rilevato gli impianti chiusi godendo anche di un serbatoio di manodopera a basso costo. La presenza di imprenditori italiani ha dunque contribuito a creare uno scambio di contatti e informazioni tale da rendere l’Italia una meta appetibile[129].

L’ingresso nell’UE ha rappresentato per i migranti romeni un vero e proprio spartiacque, poiché ha significato la loro sostanziale emancipazione dal sistema della programmazione delle quote d’ingresso previste per i lavoratori subordinati. L’opportunità rappresentata dalla libera circolazione avrebbe dovuto portare, almeno in teoria, all’emersione quasi totale delle situazioni di irregolarità e dunque non solo alla legalizzazione della presenza sul territorio italiano, ma anche alla fine del regime di sfruttamento lavorativo che per molti anni aveva coinvolto tanti lavoratori romeni. I dati forniti dall’Inail in merito agli infortuni sul posto di lavoro sembrano confermare tale aspetto, facendo riscontrare un aumento dagli 11.256 del 1° gennaio 2007 ai 17.832 rilevati alla stessa data dell’anno successivo[130]. Gli archivi Inail danno anche una serie di dati relativi al regime occupazionale della comunità; essi hanno fatto registrare, tra il 2006 e il 2007, il più alto aumento di occupati assicurati, anche se i redattori della ricerca avvisano come si tratti solo parzialmente di nuovi arrivati, mentre in gran parte sono persone già presenti in Italia ed emerse grazie all’acquisizione dello status di comunitari. Nonostante l’alto livello di istruzione indicato dalla Caritas, secondo cui il 78% sarebbe in possesso di un diploma o di una laurea, i romeni sembrano trovare un’occupazione soprattutto nell’edilizia per i maschi e nell’assistenza familiare per le femmine. Per quanto attiene alle fasce d’età, la comunità italiana sembra essere relativamente giovane (circa il 60% avrebbe un’età compresa tra i 18 e i 34 anni).

Per quanto attiene alla distribuzione territoriale, i romeni tendono a seguire le linee fondamentali dell’emigrazione nel suo complesso, con una concentrazione maggiore nelle regioni settentrionali e una progressiva diminuzione delle presenze man mano che ci si avvicina alle regioni del Sud. A livello regionale, i romeni risultano essere la prima comunità di stranieri residenti in 12 regioni su 20, la seconda in 6 e la terza nella sola Emilia-Romagna, mentre solamente in Liguria i romeni non entrano nel novero delle tre comunità più consistenti.

Tabella 5. Prime tre comunità residenti al 1° gennaio 2008, per regione

|REGIONE |TOTALE STRANIERI |PRIME 3 CITTADINANZE |

| | |Incidenza percentuale |

|Piemonte |310.543 |Romania 33,0 |Marocco 17,2 |Albania 12,4 |

|Valle d’Aosta |6.604 |Marocco 28,1 |Romania 18,7 |Albania 11,2 |

|Lombardia |815.335 |Romania 11,7 |Marocco 10,9 |Albania 10,1 |

|Trentino Alto Adige |70.834 |Albania 14,3 |Romania 10,2 |Marocco 9,8 |

|Bolzano |32.945 |Albania 13,3 |Germania 13,0 |Marocco 8,1 |

|Trento |37.889 |Romania 15,8 |Albania 15,1 |Marocco 11,2 |

|Veneto |403.985 |Romania 19,0 |Marocco 12,3 |Albania 9,4 |

|Friuli Venezia Giulia |83.306 |Romania 16,3 |Albania 14,1 |Serbia e Montenegro |

| | | | |10,6 |

|Liguria |90.881 |Ecuador 19,0 |Albania 17,5 |Marocco 10,7 |

|Emilia-Romagna |365.687 |Marocco 15,6 |Albania 13,1 |Romania 11,4 |

|Toscana |275.149 |Albania 20,2 |Romania 18,8 |Cina, Rep. Pop. 9,4 |

|Umbria |75.631 |Romania 20,6 |Albania 18,6 |Marocco 11,1 |

|Marche |115.299 |Albania 17,1 |Romania 13,4 |Marocco 10,9 |

|Lazio |390.993 |Romania 30,7 |Filippine 6,8 |Polonia 5,4 |

|Abruzzo |59.749 |Romania 22,6 |Albania 19,3 |Macedonia 7,9 |

|Molise |6.271 |Romania 27,4 |Marocco 13,7 |Albania 12,8 |

|Campania |114.792 |Ucraina 24,1 |Romania 10,9 |Marocco 8,7 |

|Puglia |63.868 |Albania 30,6 |Romania 15,7 |Marocco 8,6 |

|Basilicata |9.595 |Romania 28,8 |Albania 15,6 |Marocco 11,5 |

|Calabria |50.871 |Romania 26,2 |Marocco 17,9 |Ucraina 9,4 |

|Sicilia |98.152 |Romania 17,8 |Tunisia 15,1 |Marocco 9,5 |

|Sardegna |25.106 |Romania 17,9 |Marocco 14,0 |Cina, Rep. Pop. 8,4 |

|ITALIA |3.432.651 |Romania 18,2 |Albania 11,7 |Marocco 10,7 |

Fonte: Istat

II.3.2 I romeni e il mercato del lavoro italiano

Come più volte sottolineato, la motivazione fondamentale delle migrazioni dalla Romania è costituita da motivazioni economico-lavorative. Risulta dunque importante, nell’ambito della presente ricerca, analizzare più nel dettaglio la relazione che intercorre tra la comunità romena e il mercato del lavoro italiano. In primo luogo va posto in evidenza come il passaggio dallo status di extracomunitari a quello di comunitari successivo all’ingresso della Romania nell’UE si sia tradotto nel fatto che ai cittadini romeni presenti nel Paese non si applicano più le disposizioni del Testo Unico sull’emigrazione, sostituito dal Testo Unico in materia di circolazione e soggiorno dei cittadini di Stati comunitari[131]. Analogamente a quanto avvenuto in occasione del precedente allargamento del 2004, il Governo italiano si è avvalso della facoltà, prevista dalla normativa europea, di adottare delle misure temporanee, che pure limitano – seppure in maniera blanda – la libera circolazione dei lavoratori subordinati provenienti dai Paesi di nuova adesione[132]. Riassumendo, il regime transitorio applicato ai lavoratori subordinati bulgari e romeni, esteso a tutto il 2008, consiste nell’adozione di misure semplificate, volte a monitorare l’ingresso nel mercato del lavoro in comparti diversi da quelli edile, metalmeccanico, agricolo e turistico-alberghiero, del lavoro domestico e di cura alla persona e del lavoro dirigenziale altamente qualificato, mentre rimane libero l’ingresso di lavoratori stagionali e, ovviamente, degli autonomi. Nel caso di tutti gli altri settori, rimane necessaria la richiesta di un nulla osta al lavoro presso gli Sportelli Unici per l’immigrazione, misura questa che non comporta però particolari condizioni o il possesso di specifici requisiti, né risulta obbligatoria; la persona che non presenti tale richiesta non è infatti soggetta a specifiche sanzioni, e l’unico inconveniente in cui può incorrere è costituito dal rifiuto da parte delle istituzioni locali dell’iscrizione anagrafica nel comune di residenza.

Alla fine del 2006 i lavoratori di origine romena ammontavano, secondo i dati Inail, a 263.210 unità, di cui il 48,3% costituito da donne. Tale cifra corrisponde a circa il 12% del totale di tutti i lavoratori stranieri per i quali, nel corso dell’anno, era stato registrato almeno un rapporto di lavoro. L’incidenza della comunità romena sul mercato del lavoro italiano può essere meglio compresa se paragonata con quella della seconda collettività per numero di occupati, quella albanese (8,7%). I dati relativi al 2006 attestano una distribuzione dei lavoratori di origine romena per macrosettore economico-produttivo sostanzialmente in linea con quella relativa all’insieme degli occupati nati all’estero e che vede la netta prevalenza degli occupati nel terziario (51,5%), seguiti da quelli del settore industriale (36,7%) e agricolo (6,6%). Analizzando i singoli comparti, è possibile rilevare una forte tendenza alla canalizzazione dei lavoratori romeni in specifici settori occupazionali quali: collaborazione domestica e familiare, attività alberghiere e di ristorazione, informatica e dei servizi alle imprese per quanto riguarda il settore terziario; edilizia e metallurgia per l’ambito industriale.

Come già rilevato nel caso dei dati relativi ai residenti di origine romena in Italia, anche i dati inerenti agli occupati netti di origine fanno registrare per il 2007 un aumento eccezionale; nell’arco di un anno si passa infatti da 263.210 a 569.767 lavoratori ingaggiati almeno per un giorno , con un aumento di oltre 300.000 unità (+ 116%). Risulta dunque che la presenza regolare romena sul mercato del lavoro italiano è più che raddoppiata nel corso del primo anno da comunitari. Benché i flussi dalla Romania siano continuati, gran parte dei nuovi rapporti di lavoro registrati dall’Inail sono riconducibili all’emersione e alla legalizzazione post-adesione di relazioni lavorative preesistenti ma sommerse. Questi due elementi, cioè l’emersione di situazioni precedentemente caratterizzate da irregolarità e l’arrivo di nuovi lavoratori, favorito anche dalla maggiore libertà di circolazione di cui hanno goduto i cittadini romeni a partire dal 1° gennaio 2007, si compongono nel generare una situazione profondamente diversa rispetto a quella che poteva emergere dagli stessi dati relativi al periodo precedente l’ingresso della Romania nell’UE. Da tali dati emerge come l’aumento più sensibile abbia riguardato l’occupazione maschile, cresciuta del 127%, maggiormente in settori dove più diffusa è la pratica del lavoro sommerso, mentre quella femminile ha fatto registrare un aumento pure rilevante (+106%). Ciò ha modificato anche il rapporto tra occupati maschi e femmine, aumentandolo in favore dei primi. Tale dato non significa però automaticamente che la presenza romena in Italia sia più maschile che femminile, poiché – come visto – le donne risultano maggiormente impiegate nel settore della collaborazione familiare, assai esposto al fenomeno del lavoro sommerso. Tale eccezionale aumento degli occupati di origine romena risulta anche diverso a seconda delle macroaree in cui è divisa la penisola; maggiore nelle regioni insulari, dove registra una crescita del 514%, e meridionali (+385%), esso diminuisce man mano che si procede verso nord (+107% al Centro, 80 Nord-Est, 88% Nord Ovest). Anche così la presenza romena rimane maggioritaria nelle regioni settentrionali, e infatti in valori assoluti essa è aumentata molto più al Nord e al Centro e meno invece al Sud. Se dunque le variazioni intervenute in parallelo con l’ingresso della Romania nell’UE hanno comportato una certa redistribuzione della presenza romena tra le macro-aree che compongono la Penisola, va posto in evidenza anche come tale fenomeno abbia probabilmente caratteristiche contingenti e comunque di breve periodo, legate alle facilitazioni all’emersione del lavoro sommerso derivanti dall’acquisizione dello status di comunitario, che potrebbe favorire – secondo una linea di tendenza già constatata negli anni precedenti – lo spostamento interno degli immigrati di origine romena da Sud verso le regioni centro-settentrionali, dove possono trovare occupazioni migliori e meglio retribuite.

In tale ambito, un capitolo a parte è rappresentato dall’emigrazione ad alta qualificazione, che risponde a logiche proprie; in tal caso infatti – come mette bene in evidenza Vedran Horvat – le cause che spingono alla migrazione di molti dai paesi dell’Europa sud-orientale sono strettamente legate all’ambiente sociale e politico del paese di provenienza, dove spesso si sono affermati gruppi oligarchici che tendono ad assorbire o a “espellere” i cittadini più qualificati, considerati una élite indesiderabile e potenzialmente pericolosa[133]. Nel caso specifico dell’emigrazione dalla Romania, il settore più colpito dal fenomeno è quello medico e paramedico. Ciò è divenuto ancor più vero con l’ingresso della Romania nell’UE e il riconoscimento – non ancora universale per la verità – del valore legale del titolo di studio in tutti gli Stati dell’Unione; secondo quanto espresso dall’ordine dei medici e dai rappresentanti del maggiore sindacato di categoria, a partire dal 1° gennaio 2007 una percentuale compresa tra il 65 e il 54% dei medici romeni ha espresso la volontà di trasferirsi all’estero in breve tempo. Le cause di tale decisione sono molto spesso le pessime condizioni retributive in patria, la scarsezza di attrezzature e strutture adeguate, le deboli possibilità di carriera[134], mentre – come ha ricordato il neo-eletto Rettore della Sapienza Università di Roma Luigi Frati in occasione dell’apertura delle Giornate Italo-Romene organizzate tra il 20 e il 22 novembre 2008 – la scuola medica romena ha, nonostante tutte le difficoltà, tradizionalmente un livello assai elevato, che ne rende gli allievi appetibili sul mercato del lavoro occidentale e dunque anche italiano. Anche nel caso di altri settori lavorativi emerge come, molto spesso, i principali fattori di attrazione esercitati dai paesi di accoglienza siano rappresentati dalle migliori prospettive di carriera e dall’aspettativa di un livello di vita di molto superiore, mentre i motivi che spingono a lasciare la Romania sono in gran parte costituiti da una visione sconfortante della situazione in patria, generata dalla corruzione diffusa che vi regna, e dalle scarse prospettive di impiego e di carriera[135].

II.3.3 L’associazionismo romeno in Italia

L’associazionismo è un fenomeno relativamente nuovo tra i romeni d’Italia e dall’andamento contraddittorio. Il 2008 ha registrato un notevole incremento del numero delle associazioni presenti sul territorio, ma il numero di romeni che vi si rivolge rimane ancora assai basso. Le cause di tale disinteresse sono diverse; molte associazioni sono, come anticipato, relativamente giovani e dunque ancora poco note; per altro verso, anche le associazioni di più vecchia data hanno avuto tendenzialmente una base territoriale assai ridotta, il che ne ha diminuito il numero di potenziali iscritti. Un altro elemento che può aver giocato un ruolo in tal senso è costituito, probabilmente, dalla mancanza di collaborazione tra associazioni diverse, molto spesso in conflitto tra loro per ottenere il sostegno delle autorità di Bucarest e delle rappresentanze diplomatiche romene in Italia alle proprie iniziative; ciò può aver influito sulla percezione che gli immigrati hanno delle associazioni come meri centri di interesse personale, la quale a sua volta può aver generato disinteresse e diffidenza nei loro confronti. Un’ulteriore motivazione dello scarso interesse mostrato dagli immigrati romeni al tema dell’associazionismo è costituita dal fatto che, molto spesso, essi non hanno o ritengono di non avere, soprattutto nelle grandi città, tempo libero sufficiente da dedicare all’associazionismo.

Uno dei servizi principali forniti da tali associazioni è legato alla mediazione linguistica e culturale, a cui si affianca il supporto nella risoluzione dei problemi abitativi e nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Altri importanti servizi sono rappresentati dall’assistenza legale, dal supporto nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Le associazioni di romeni in Italia sembrano dunque fornire in primo luogo ai loro concittadini un’assistenza pratica nei problemi fondamentali legati in primo luogo all’inserimento nella nuova realtà e, in un secondo momento, in quelli della vita quotidiana.

Le associazioni svolgono però anche un altro ruolo. Secondo i loro rappresentanti incontrati nel corso della ricerca, molti romeni si rivolgono alle associazioni perché convinti che queste possano garantire che loro e i loro figli – soprattutto per quelli nati in Italia – mantengano un legame forte con la cultura d’origine e le sue tradizioni. Esse svolgono poi un ruolo sociale importante; molti decidono infatti di divenire membri di un’associazione perché la ritengono uno strumento di socializzazione, e vedono nella sua sede fisica il luogo privilegiato in cui è possibile conoscere altri romeni. L’associazione rappresenta poi anche una sorta di “finestra sul mondo”; essa costituisce infatti per molti associati un utile strumento per la promozione della propria cultura all’estero e, in altri casi, essa fa crescere la consapevolezza di rappresentare una minoranza forte nel paese di destinazione. Nonostante ciò, però, poche delle persone incontrate riconoscono che le associazioni possano rappresentare un soggetto politico efficace.

Il 2008 sembra cambiare in parte l’andamento, accentuando un trend che, per la verità, sembra essere nato con qualche anno di anticipo. Già negli anni precedenti infatti le associazioni dei romeni (e per i romeni) avevano fatto registrare una tenue, graduale crescita sia a livello quantitativo che qualitativo. Questa crescita si è tuttavia accompagnata a un naturale fenomeno di frammentazione territoriale e mancanza di coordinamento dovuto alle caratteristiche stesse dell’immigrazione romena, soprattutto quella recente, più numerosa, caotica e problematica rispetto a quella registrata fino alla fine degli anni Novanta. Il consistente spostamento dalla Romania verso l’Italia e la Spagna ha generato, in questi due ultimi paesi ma anche nella madrepatria, una maggiore consapevolezza e sensibilità nei confronti dei problemi con cui i migranti devono confrontarsi quotidianamente. Tale sviluppo è stato favorito anche dallo scoppio del cosiddetto “caso Mailat” o “caso Reggiani”; le reazioni che tale episodio ha generato nell’opinione pubblica italiana ha spinto molti romeni che fino a quel momento avevano vissuto tranquillamente in Italia a reagire all’onda mass-mediatica montata durante la campagna elettorale che si stava svolgendo in parallelo; a tal fine hanno visto la luce molti nuovi gruppi e associazioni di tutela dei diritti e dell’immagine dei romeni che si sono impegnati per contribuire a promuovere la cultura e i valori romeni in Italia.

La proliferazione di tali gruppi e associazioni, molti dei quali nati dalla volontà di “fare qualcosa” ma privi di una concreta progettualità e delle necessarie competenze e risorse, ha reso anche le autorità romene più consapevoli dell’utilità di un maggiore coordinamento dell’associazionismo a favore della comunità romena d’Italia, come testimoniano le tante iniziative sponsorizzate in diverse città italiane dall’Ambasciata di Romania in Roma e dal Ministero degli Affari Esteri di Bucarest. Un simbolo tangibile di tale cambiamento è costituito dalla fondazione, nel settembre 2008, di una Federazione delle Associazioni dei Romeni in Italia (FARI) destinata a coordinare l’attività delle associazioni afferenti in modo da massimizzarne l’impatto e di costituire un partner credibile nei rapporti con le istituzioni italiane e romene e con il sistema mass-mediatico.

Tale federazione costituisce un superamento, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto al precedente esperimento rappresentato dalla Lega dei Romeni d’Italia, sia per l’elevato numero di associazioni che vi hanno aderito – circa 38 nei primi due mesi di vita – sia per il fatto di essere un vero e proprio soggetto federale, capace di sostenere, e non di soffocare od oscurare, le associazioni che lo costituiscono.

II.4 L’indagine empirica sulle comunità di Roma e Torino

Nell’ampio panorama dell’emigrazione romena in Italia, per la comprensione della quale si è tentato di dare alcune linee-guida nelle pagine precedenti, emergono tra tutte due comunità, quelle di Roma e Torino, particolarmente importanti per il loro livello quantitativo. Al 1° gennaio 2008, secondo gli ultimi dati Istat, i romeni residenti a Roma erano 92.258, pari al 28,7% del totale della popolazione straniera residente nella Capitale, mentre a Torino il loro valore assoluto era leggermente inferiore (73.557 unità), ma aveva un impatto percentuale sulla totalità della popolazione immigrata di gran lunga più superiore (il 44,7% del totale dei residenti stranieri nella provincia). Ciò ha ovviamente un’influenza notevole anche sulla struttura dell’emigrazione a livello regionale. I romeni residenti nel Lazio sono, sempre secondo la stessa fonte, 120.030 e costituiscono il 19,2% del totale degli stranieri residenti; in Piemonte si hanno invece 102.569 residenti romeni, che corrispondono al 16,4% del totale della presenza straniera residente[136].

Il 2007 ha fatto registrare anche in queste due comunità – come in tutta Italia – una crescita molto elevata (Tab. 6), ancorché inferiore alla media del paese.

Tabella 6. Cittadini romeni residenti nel Lazio e in Piemonte al 1° gennaio degli anni 2007 e 2008

|Regioni |1° gennaio 2007 |1° gennaio 2008 |Variazione % 2007-2008 |

| |M |F |

|Germania |59,5 |50,2 |

|Stati Uniti |9,7 |14,4 |

|Italia |3,7 |5,7 |

|Austria |4,4 |4,6 |

|Francia |3,5 |4,4 |

|Grecia |0,9 |3,7 |

|Canada |3,9 |2,7 |

|Svezia |2,1 |2,1 |

|Gran Bretagna |1,4 |1,8 |

|Australia |1,6 |0,7 |

|Altri Paesi |9,3 |9,7 |

|Totale % |100,0 |100,0 |

|Totale v.a. (in migliaia) |248,5 |533,0 |

Fonte: B. Sakson, Wplyw “niewidzialnych”migracji zagranicznych lat osiemdziesiatych na struktury demograficzne Polski, in „Monografie i opracowania481”, Szkola Glowa Handlowa, Warszawa, 2002.

* Le persone che lasciarono la Polonia dopo il 01.04.1981 ma non oltre il 06.12.1988 e non ritornarono in Polonia prima che fossero passati 12 mesi dal momento della partenza

Secondo i dati ufficiali dell’ufficio statistico polacco (Glowny Urzad Statystyczny), nel corso degli anni 1981–1989 sono emigrati definitivamente 248.500 e temporaneamente altri 533.000 Polacchi. Il 3,7% del totale degli emigranti polacchi definitivi e il 5,7% di quelli temporanei scelsero l’Italia come paese d’arrivo. Ciò colloca l’Italia al terzo posto tra i paesi di destinazione dell’emigrazione polacca di quel periodo. È stato questo, quindi, un periodo storico di forte contrapposizione all’area di influenza sovietica, che ha sortito come effetto anche quello di provocare i flussi migratori più intensi. Come detto, esuli politici e popolazione civile vennero accolti in modo favorevole dalla popolazione europea occidentale. In particolare, in Italia si mise in moto una rete di solidarietà e di accoglienza di matrice cattolica.

Negli anni Ottanta l’immigrazione polacca in Italia ha avuto come causa prevalente motivi politici e non è stata particolarmente significativa. Inoltre, la maggior parte dei soggiorni degli immigrati polacchi in Italia era di breve durata, poiché era loro intenzione utilizzare la tappa italiana come territorio di transito verso altre destinazioni finali. La situazione cambia definitivamente dopo il 1989, quando fa la sua comparsa il fenomeno dell’emigrazione per motivi di lavoro. Con il cambiamento del carattere dell’emigrazione cambia anche il profilo dell’immigrato stesso - si nota, soprattutto, l’abbassamento del livello di istruzione di chi emigra, tornato a salire solo in tempi recenti, in seguito all’adesione della Polonia all’ Unione Europea.

3. 1990: sono gli anni della caduta del sistema socialista. Nel 1989 la Polonia è già investita da una lunga e difficile fase di transizione, che la porterà dall’economia socialista a quella di mercato. In questo periodo, si assiste a un incremento deciso della consistenza dei flussi migratori in uscita, che coinvolgono anche emigranti con un livello d’istruzione più basso. Nella maggior parte dei casi si tratta di progetti migratori, nelle intenzioni iniziali, di breve o medio termine. Con la caduta del muro di Berlino, dunque, inizia una fase qualitativamente e quantitativamente diversa dei flussi verso l’Italia, che si caratterizzano per essere prodotti da motivazioni prevalentemente economiche e non più politiche. Nel momento in cui gli ex paesi comunisti si aprono all’economia di mercato, infatti, si registra contemporaneamente un aumento del costo della vita e della disoccupazione. Ancora oggi in Europa dell’Est, i livelli salariali sono notoriamente più bassi: il costo medio di un’ora di lavoro nei Paesi dell’ex blocco sovietico è, infatti, di 3,47 euro, contro una media di 22,19 nella UE. Alla luce di queste considerazioni, risulta ovvio che i flussi migratori abbiano assunto i connotati di un vero e proprio esodo. L’Italia, poi, mostrò una predisposizione particolare verso gli ingressi di Polacchi, quando, nel 1991, li incluse nelle categorie di nazionalità esonerate dall’obbligo di visto per motivi turistici.

Tab. 1.2 Popolazione polacca soggiornante in Italia, anni 1991-2006 (al 31 dicembre)

|Anno |Permessi di soggiorno |

| |M |F |MF |

|1991 |5.382 |6.757 |12.139 |

|1992 |4.234 |6.256 |10.490 |

|1993 |4.495 |7.224 |11.719 |

|1994 |4.490 |7.910 |12.400 |

|1995 |4.896 |9.059 |13.955 |

|1996 |8.276 |14.887 |23.163 |

|1997 |7.452 |15.486 |22.938 |

|1998 |7.177 |16.081 |23.258 |

|1999 |8.694 |20.784 |29.478 |

|2000 |8.844 |21.575 |30.419 |

|2001 |9.190 |23.699 |32.889 |

|2002 |9.698 |25.282 |34.980 |

|2003 |16.075 |48.837 |64.912 |

|2004 |17.743 |48.038 |65.511 |

|2005 |20.153 |52.938 |73.191 |

|2006 |22.451 |56.479 |78.930 |

Fonte: Elaborazioni proprie sui dati ottenibili sul sito: istat.it

La dinamica della presenza dei polacchi soggiornanti in Italia segue il trend evidenziato in Tab. 1.2. Si osserva una diminuzione nel 1992, quando probabilmente molte persone che avevano approfittato della regolarizzazione avvenuta nel 1990, avendo dopo perso il lavoro, non sono riuscite a trovarne uno nuovo o comunque non un’attività in regola, senza quindi le condizioni per poter rinnovare il permesso di soggiorno. La popolazione polacca raddoppia il suo numero nel 1996, a seguito della regolarizzazione dell’anno precedente. Un anno dopo, nel 1997, il numero dei polacchi soggiornanti in Italia di nuovo cala, probabilmente ancora, come nel 1992, a causa dell’impossibilità di rinnovare il permesso.

4. 2000: l’inizio del nuovo secolo rappresenta un grande cambiamento nelle prerogative delle migrazioni dalla Polonia. Il processo di adesione formale all’Unione Europea vede progressivamente trasformare i lavoratori polacchi da extracomunitari in neocomunitari. In questo periodo, alle migrazioni per motivi economici, si affiancano gli spostamenti per esigenze di studio, di scambi culturali, di perfezionamento della formazione. Dopo l’entrata della Polonia nell’Unione Europea (maggio 2004), si è innestato un meccanismo migratorio di tipo inedito, costituito sostanzialmente da giovani, interessati a spostarsi in Italia non soltanto per motivi economici, ma anche per studiare, realizzare esperienze lavorative, imparare la lingua, conoscerne la cultura e le tradizioni. Tuttavia, le difficoltà dell’economia polacca permangono. La Polonia, con circa 39 milioni di abitanti, continua a confrontarsi con seri problemi occupazionali: nel 2005 si è registrato un tasso di disoccupazione del 17,7% e il paese è stato classificato nello stesso anno al 24° posto fra tutti i membri dell’UE-25 per Pil pro-capite. L’emigrazione intraeuropea per motivi di lavoro si mantiene comunque a livelli considerevoli[144].

Per quanto riguarda le statistiche, alla fine del 2002, a seguito della nuova regolarizzazione, la precedente presenza dei cittadini polacchi soggiornati in Italia è raddoppiata, così che al 31 dicembre 2003 i polacchi registrati come soggiornanti sono 65.847. Secondo una stima del “Dossier Caritas/Migrantes” alla stessa data la presenza effettiva è stata, però, di 80.000 persone. A distanza di altri due anni (31 dicembre 2005), i soggiornanti registrati dal Ministero dell’Interno si portano a 72.229: aggiungendo a tale numero almeno 10.000 minori e circa 25.000 stagionali, presenti per un periodo massimo di nove mesi, si arriva alle 100.000 unità. La Polonia è così, fino all’ingresso della Romania nell’Unione Europea (2007), il primo Stato membro per numero di presenze in Italia, paese che dunque accoglie la più alta presenza polacca dopo la Germania. Nel 2005 sono entrati in Italia 24.149 lavoratori polacchi, di cui la maggior parte per lavori stagionali. Se si tiene conto anche dei familiari, si può ipotizzare in Italia un flusso annuale di 10.000 polacchi per inserimento stabile.

Tab. 1.3 Popolazione polacca residente in Italia negli anni 2002-2006 (al 31 dicembre)

|Anno |Iscrizioni in anagrafe |

| |M |F |MF |

|2002 |8091 |21881 |29972 |

|2003 |10557 |29757 |40314 |

|2004 |13307 |37487 |50794 |

|2005 |16512 |44311 |60823 |

|2006 |20516 |51941 |72457 |

Fonte: Elaborazioni proprie sui dati ottenibili sul sito: istat.it

Il notevole scarto tra soggiornanti e residenti - quasi un terzo in meno, con 50.794 iscritti in anagrafe al 31 dicembre 2004 contro 65.511 soggiornanti - potrebbe indicare la tendenza di una parte non trascurabile di polacchi a interpretare la loro permanenza in Italia come temporanea, per cui non si ritiene utile o necessario registrare la propria residenza. A maggior ragione dopo l’ingresso nella UE, quando i rimpatri diventano relativamente agevoli.

Al momento dell’adesione della Polonia nell’Unione Europea, molti stati membri hanno adottato un regime di moratoria degli ingressi per ragioni di lavoro dei cittadini neocomunitari. Anche l’Italia aveva adottato misure simili, limitando così il numero di cittadini polacchi. Tuttavia, da quando nel settembre 2006 è giunto a scadenza il termine della moratoria, l’Italia si è candidata come meta significativa dell’emigrazione polacca, sia per impieghi stagionali o temporanei, sia per inserimenti di tipo permanente.

Allo stato attuale, dunque, la comunità polacca incide per il 3% sull’intera popolazione immigrata, è notevolmente inferiore numericamente a quelle provenienti dalla Romania, dall’Albania e dal Marocco, di poco inferiore a quelle dell’Ucraina e delle Filippine, superiore a quelle di Tunisia, Stati Uniti e Senegal, paesi compresi nella graduatoria dei primi dieci.

All’incirca un quinto del totale della presenza polacca si concentra nella regione Lazio e nell’area metropolitana di Roma. Le altre regioni con il maggior numero di immigrati polacchi sono l’Emilia Romagna, la Campania, le Marche e la Lombardia. Oltre alle province di Roma, Napoli e Bologna, altre province con un consistente numero di polacchi sono Perugia, Firenze, Modena, Ravenna, Caserta e Salerno. Si tratta, comunque, di una comunità presente in tutta Italia, anche nella poco popolosa Sardegna, dove i polacchi sono meno di mille, ma vantano una presenza di vecchia data, che risale all’inserimento di tecnici minerari a Silius.

|Residenti |50 794 |

|Soggiornati |72 229 |

|Stima Dossier Caritas |100 000 |

|Incidenza su pop. Straniera |3 % |

|Flussi lavorativi annuali |25 000 |

|Flussi di inserimento stabile |10 000 |

|% polacchi in provincia Roma |24 % |

Tab. 1. 4 - Dati riassuntivi presenza dei polacchi al 2005

Fonte: K. Golemo, K. Kowalska –Angelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma 2006.

III.2 Politiche migratorie della Polonia

III.2.1 Politiche migratorie della Polonia dal dopoguerra fino alla trasformazione al 1989 del 1989

Già all’inizio del XIX secolo la Polonia è caratterizzata da ingenti flussi in uscita, tanto che il Paese diventa uno dei più importanti bacini di emigrazione europei. Secondo le stime, nel periodo 1860 -1940 dalla Polonia emigrarono 5 milioni di persone, di cui solo il 20–30 percento fece ritorno in patria[145].

La fine della guerra e il trattato di Jalta, che ha definito il nuovo ordine per la Polonia, hanno avuto conseguenze di vitale importanza per i processi migratori dei 50 anni successivi. Il primo fattore che ha determinato soprattutto le migrazioni del periodo immediatamente successivo alla guerra, ma che ha avuto ripercussioni anni dopo, è stato il cambiamento dei confini. In seguito a ciò e in virtù degli accordi di Potsdam, più di 3 milioni di tedeschi hanno dovuto lasciare la Polonia. Nello stesso tempo 1,5 milioni di persone sono rimpatriate dai territori dell’Unione Sovietica[146].

La società polacca dopo la seconda guerra mondiale viene definita in letteratura “società dispersa”. La dispersione è l’effetto delle migrazioni avvenute durante la guerra (volontarie e forzate) e anche delle migrazioni del dopoguerra causate dallo spostamento dei confini. Si stima, che al termine della seconda guerra mondiale il 20 percento della popolazione polacca, cioè circa 5 milioni di persone, soggiornasse oltre i confini della Polonia. Secondo le stime[147] sul finire della seconda guerra mondiale, erano circa 2 milioni e mezzo i Polacchi che dimoravano nei territori della Germania e degli altri paesi dell’Europa occidentale. La maggior parte di essi fece ritorno in Polonia prima del 1950; mentre si stima che all’ovest rimasero 100.000 soldati e 400.000 civili polacchi.

“Il polacco dell’anno 1945 è un polacco viaggiante” (Kersten, 1986, p. 132 ). Le mobilità del secondo dopoguerra possono essere divise in:

➢ Mobilità causate dai cambiamenti delle frontiere

➢ Rimpatri e migrazioni di ritorno

➢ Migrazioni interne – connesse con popolamento/insediamento delle Terre Riconquistate (Ziemie Odzyskane).

Un tratto comune a tutte e tre i tipi di mobilità è che attraverso di esse, lo stato polacco perseguiva un obiettivo politico, strategico e ideologico: concentrare sulle terre della Polonia individui di nazionalità polacca ed espellere altre nazionalità, in particolare cittadini tedeschi, bielorussi e ucraini.

Nel lustro 1945–1950 rientrarono ancora in Polonia 1.240.000 polacchi circa – secondo le stime tale stock coinciderebbe con il 50 percento della popolazione polacca allora residente nei territori delle confinanti repubbliche sovietiche. Nello stesso periodo dalla Polonia furono espulse 480.000 mila persone di nazionalità ucraina e 36.000 di nazionalità bielorussa[148].

Per quanto riguarda la popolazione tedesca residente nei territori divenuti polacchi in seguito ai trattati di pace, 4-5 milioni di essi si erano già rifugiati in territorio tedesco ancora prima della fine della guerra. Altri 3.100.000 circa furono soggetti a procedure di espulsione, che si estesero fino al 1947.

Dopo le mobilità di massa del dopoguerra le politiche migratorie della “Polonia popolare” (Polska Ludowa) subirono un cambiamento drastico. Tra il 1949 e il 1953, gli espatri furono progressivamente ridotti al minimo, specialmente quelli diretti verso gli stati appartenenti al blocco occidentale, fino ad arrivare a un vero e proprio blocco.

Oltre il cambiamento dei confini, un altro fattore che ha determinato per lunghi anni la dimensione dell’emigrazione polacca è stato il fatto che la Polonia è rimasta sotto l’influenza della Russia e ha dovuto subire le conseguenze delle trasformazioni del regime. Le autorità polacche di quel periodo hanno cercato di conquistare il controllo assoluto su tutti gli elementi della vita sociale. Uno di quegli elementi particolarmente importanti dal punto di vista della dottrina ideologica è stato lo spostamento dei cittadini oltre i confini dello Stato. Quasi fino alla fine degli anni Ottanta non solo il volume del flusso migratorio, ma qualsiasi tipo di viaggio all’estero, è stato regolato dalle autorità centrali oppure dai loro equivalenti locali attraverso una determinata politica relativa al rilascio dei passaporti.

Dagli anni Cinquanta fino al 1988 tutte le questioni connesse alle partenze dei cittadini polacchi verso l’estero furono di competenza degli “Uffici Passaporti”. Secondo la legge sui passaporti del 1959, ogni cittadino aveva teoricamente diritto a ottenere il documento necessario all’espatrio. Tuttavia, la stessa legge stabiliva i diversi motivi per cui l’Ufficio Passaporti poteva negare il rilascio di tale documento. Tra questi motivi si faceva genericamente riferimento a non meglio precisate “ragioni sociali”[149]. Fu questo la motivazione più utilizzata dagli uffici per rifiutare i passaporti senza l’obbligo di fornire una vera giustificazione.

La prima parte degli anni Cinquanta è stato definita nella letteratura come un periodo di “Grande Chiusura”[150]. Le autorità statali hanno cercato di limitare qualsiasi genere di contatto internazionale da parte dei propri cittadini, impedendo in particolare i viaggi individuali all’estero.

Tab.2.1 Emigrazione dalla Polonia negli anni 1951-1989 (in migliaia)

|Anno |Numero emigrati|Anno |Numero emigrati|Anno |Numero emigrati|Anno |Numero emigrati|

|1951 |1,6 |1961 |20,2 |1972 |19,1 |1982 |32,1 |

|1953 |2,8 |1963 |20,0 |1973 |13,0 |1983 |26,2 |

|1954 |3,8 |1964 |24,2 |1974 |11,8 |1984 |17,4 |

|1955 |1,9 |1965 |28,6 |1975 |9,6 |1985 |20,5 |

|1956 |21,8 |1966 |28,8 |1976 |26,7 |1986 |29,0 |

|1957 |133,4 |1967 |19,9 |1977 |28,9 |1987 |36,4 |

|1958 |139,3 |1968 |19,4 |1978 |29,5 |1988 |36,3 |

|1959 |37,0 |1969 |22,1 |1979 |34,2 |1989 |26,6 |

|1960 |28,0 |1970 |14,1 |1980 |22,7 | | |

Fonte: Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.

Dopo la morte di Stalin, nel 1953, le barriere agli espatri cominciarono a essere rimosse e le politiche migratorie si fecero via via meno restrittive. In Polonia si è verificata una crescità dell’emigrazione. Negli anni 1957 e 1958 si è registrato un aumento dell’emigrazione senza precedenti. Si tratta soprattutto dell’emigrazione verso la Germania; una seconda ondata dell’emigrazione del dopoguerra interrotta durante il periodo stalinista. Questo flusso migratorio è stato possibile grazie alla delibera del Comitato centrale del Partito Operaio Unificato Polacco del 1957, che ha consentito l’espatrio allo scopo di ricongiungimento familiare. Negli anni 1956-1959 oltre 250.000 persone sono emigrate in entrambe le repubbliche tedesche[151].

Anche le migrazioni oltreoceano vengono riprese dopo la guerra. Il numero degli emigrati in Stati Uniti, Canada e Australia cresce sistematicamente.

Nella seconda parte degli anni Cinquanta si intensifica l’emigrazione anche verso Israele dove dal 1955 al 1960 si spostano oltre 50.000 persone. L’intensità di questa migrazione si spiega con la significativa presenza di ebrei tra le persone rimpatriate dall’Unione Sovietica. Per molti di loro l’arrivo in Polonia è stato solo il primo passo dell’emigrazione verso altri paesi [152].

Come si vede nella tabella 1.1. il disgelo del 1956 ha prodotto un aumento generale dei viaggi all’estero. Gli anni Sessanta, definiti nella storia della “Repubblica Polacca Popolare” come un periodo di piccola stabilizzazione, anche per quanto riguarda i processi migratori sono caratterizzati per una relativa stabilità, soprattutto per quanto riguarda l’emigrazione definitiva. Durante quel decennio circa 20.000 persone all’anno sono emigrate dalla Polonia (vedi tabella 2.1).

Il ricambio delle autorità politiche alla fine degli anni Settanta ha aperto un nuovo periodo della storia della Repubblica Popolare Polacca, chiamata “l’epoca di Gierek”. Due fattori di natura politica hanno condizionato le principali tendenze delle migrazioni negli anni Settanta. Il primo è stato quello della normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Federale Tedesca, che ha aperto la possibilità dell’espatrio definitivo in Germania a tanti cittadini polacchi. Il secondo fattore, invece, è stata la relativa liberalizzazione nel rilascio dei passaporti e l’apertura della Polonia all’Ovest.

L’accordo tra la Polonia e la RFT firmato nel dicembre 1970 ha reso possibile l’emigrazione in Germania ai cittadini polacchi che dimostravano “un’appartenenza indiscutibile alla nazione tedesca”, ai membri di famiglie separate, alle famiglie miste in cui predominava il “senso dell’identità nazionale tedesca”[153]. I criteri definiti in modo così impreciso hanno fornito alla popolazione indigena polacca l’opportunità di emigrare, il che ha avuto un ruolo cruciale nel deflusso migratorio nella RFT negli anni Settanta.

L’altro fattore che ha favorito le migrazioni degli anni Settanta è stato l’apertura della Polonia all’Occidente. Si è trattato sia dell’intensificazione dei contatti commerciali ufficiali sia della liberalizzazione di regole relative ai viaggi dei polacchi all’estero. Questa liberalizzazione ha creato oltretutto la possibilità di spostamenti all’interno del blocco socialista permettendo di oltrepassare le frontiere senza il passaporto.

A partire dagli anni Ottanta i flussi in uscita dei polacchi ricominciarono ad acquisire carattere di massa. I processi migratori hanno raggiunto una scala inosservata dai tempi del primo periodo del dopoguerra Tra il 1980 e il 1989 emigrano dalla Polonia 1.100.000-1.200.000 persone e quasi altrettante lasciano il paese temporaneamente per almeno più di due mesi e meno di un anno[154].

I fattori che hanno provocato le migrazioni in questa scala sono stati due:

1. crisi del sistema politico rappresentato dagli avvenimenti seguiti alla nascita del movimento sindacale Solidarnosc e dall’introduzione della legge marziale;

2. crisi dell’economia – gli anni Ottanta sono stati il periodo della sempre più percepibile crisi le cui origini risalgono alla fine del decennio precedente.

I due gruppi di fattori hanno predisposto le basi per i due tipi di emigrazione:

1. emigrazione politica, che è stata una risposta alle repressioni eseguite dalle autorità dello Stato, in particolare dopo l’introduzione della legge marziale;

2. emigrazione economica, una fuga provocata dalla mancanza di prospettive e di possibilità di acquisire di un minimo di stabilità.

Va osservato che la differenziazione di quei due flussi migratori dalla Polonia ha comportato grandi difficoltà. Non vi è dubbio che la gran parte degli emigrati, che ha chiesto asilo politico nei Paesi occidentali, ha approfittato dell’atmosfera favorevole ai rifugiati polacchi e ha voluto legalizzare il proprio soggiorno nel Paese d’arrivo per ragioni anche economiche[155].

III.2.2 Le istituzioni polacche come attori della politica migratoria dopo la trasformazione del 1989

Secondo le stime dell’anno 2007 effettuate dalle associazioni degli emigrati polacchi presenti in tutto il mondo[156], il numero dei Polacchi e delle persone provenienti dalla Polonia all’estero si colloca tra 14 e 17 milioni (alcune fonti parlano anche di 21 milioni) e quindi ammontano al 35-40% della popolazione presente in Polonia. Secondo queste stime, le più grandi comunità di Polacchi all’estero si trovano negli Stati Uniti, in Germania, Brasile, Francia, Canada, Bielorussia, Ucraina, Lituania e Gran Bretagna.

Tab. 2.2 La comunità polacca all’estero divisa per i paesi di residenza

|Paese |Nr di persone |Paese |Nr di persone |Paese |Nr di persone |

|Afganistan |100 |Indonesia |100 |Panama |200 |

|Albania |50 |Iraq |100 |Papua Nuova Guinea |20 |

|Algeria |250 |Iran |100 |Paraguay |10 000 |

|Andora |10 |Irlanda |80 000 |Pakistan |50 |

|Angola |50 |Islanda |7 000 |Perù |5 000 |

|Arabia Saudita |100 |Israel |4 000 |Portogallo |3 000 |

|Argentina |450 000 |Giappone |600 |Repubblica del Sud Africa |35 000 |

|Armenia |1 200 |Yemen |50 |Russia |300 000 |

|Australia |200 000 |Giordania |250 |Romania |10 000 |

|Austria |55 000 |Camerun |100 |Ruanda |100 |

|Azerbaigian |1 000 |Canada |900 000 |Senegal |100 |

|Bahrain |130 |Kazakhstan |100 000 |Serbia i Montenegro |1 200 |

|Bangladesh |20 |Kenia |100 |Singapore |200 |

|Belgio |70 000 |Kirgistan |1 400 |Slovacca |10 000 |

|Bielorussia |900 000 |Columbia |3 000 |Slovenia |200 |

|Bolivia |500 |Congo |100 |Stati Uniti |10 600 000 |

|Bosnia e Erzegovina |350 |Corea Sud |100 |Sudan |100 |

|Brasile |1 800 000 |Corea Nord |11 |Syria |600 |

|Bulgaria |2 600 |Costarica |200 |Svizzera |20 000 |

|Chile |10 000 |Cuba |150 |Svezia |100 000 |

|Cina |300 |Kuwait |250 |Tagikistan |2 000 |

|Croazia |2 400 |Libano |700 |Thailandia |100 |

|Cipro |500 |Libia |350 |Taiwan |100 |

|Repubblica Ceca |100 000 |Liechtenstein |10 |Tanzania |100 |

|Danimarca |20 000 |Lituania |300 000 |Tunisi |500 |

|Santo Domingo |100 |Lussemburgo |3 000 |Turchia |1 000 |

|Egitto |600 |Lettonia |75 000 |Turkmenistan |5 000 |

|Ecuador |100 |Macedonia |600 |Uganda |100 |

|Estonia |5 000 |Madagascar |80 |Ucraina |900 000 |

|Etiopia |100 |Malesia |100 |Uruguay |10 000 |

|Finlandia |5 000 |Malta |30 |Uzbekistan |5 000 |

|Filippine |100 |Marocco |500 |Vaticano |50 |

|Francia |1 050 000 |Mauritania |100 |Venezuela |4 000 |

|Ghana |100 |Messico |10 000 |Ungheria |20 000 |

|Grecia |50 000 |Moldavia |10 000 |Gran Bretagna |500 000 |

|Georgia |6 000 |Monaco |100 |Vietnam |100 |

|Guyana |100 |Mozambico |10 |Italia |100 000 |

|Guatemala |100 |Germania |2 000 000 |Costa d’Avorio |100 |

|Spagna |45 000 |Nicaragua |100 |Zambia |100 |

|Olanda |60 000 |Nigeria |100 |Zimbabwe |800 |

|Honduras |100 |Norvegia |18 000 |Emirati Arabi Uniti |3 000 |

|Indie |100 |Nuova Zelanda |6 000 | | |

Fonte: .pl

Possiamo presumere, che tutte queste persone, che o hanno la cittadinanza polacca oppure, anche non avendola, sono interessate a mantenere i contatti con la Polonia, il paese dei loro antenati, rappresentano il potenziale interesse delle politiche emigratorie polacche.

A questo punto bisogna porsi la domanda: ma tali politiche esistono? La risposta, ripetuta spesso nelle ricerche scientifiche riguardanti le politiche migratorie e anche nei resoconti giornalistici è negativa. Anche se gli attori della vita politica sono sempre più interessati a questo argomento, tali politiche in Polonia non esistono ancora.

Il fatto della mancata esistenza di tale politiche stupisce ancora di più quando si va ad analizzare i dati ufficiali riguardanti le migrazioni. Il grafico 2.1 mostra il saldo migratorio nel paese per il periodo 19902006. Come si può vedere, il numero della popolazione emigrata è molto più alto rispetto a quella immigrata verso la Polonia.

Graf. 2.1 Emigrazione dalla e immigrazione per la Polonia negli anni 1990 - 2006

[pic]

Fonte: Elaborazione propria alla base dei dati pubblicati in The 2007 SOPEMI Report for Poland.[157]

Tuttavia, a livello di discorso e politiche pubblice, si assite a un paradosso. In Polonia la politica migratoria, per tutto il passato, sopratutto nel periodo tra prima e seconda guerra mondiale e anche negli anni Settanta e Ottanta, è sempre stata associata con l’emigrazione dal paese. Il motivo di tale situazione risiede nelle dimensioni del fenomeno nei periodi citati. Per esempio, secondo Andrzej Sakson, negli anni 1918-1938, sono emigrate 2.100.000 persone circa[158]. Gli anni Novanta, però, hanno introdotto un cambiamento epocale. Da allora, infatti, la politica migratoria viene associata unicamente con la politica verso gli immigrati. Nella maggior parte delle pubblicazioni e dei dibattiti pubblici di questo periodo, come si ricava anche dall’analisi delle sedute della Camera dedicate alla deliberazione sulla legge sugli stranieri svoltesi negli anni 1997, 2001 i 2003[159], il termine politica migratoria diviene sinonimo di politica immigratoria. La politica migratoria viene definita come l’insieme di regole e leggi applicate verso gli stranieri presenti nel territorio polacco. In particolare, si fa riferimento alle politiche di controllo di ingressi nel paese, di regolamentazione del mercato del lavoro e di integrazione degli stranieri nella società.

Di conseguenza, i principali interventi legislativi hanno riguardato gli immigrati: leggi sugli stranieri (Gazzetta Ufficiale del 26 settembre 1997 r. Nr 114 art. 739), legge sulla tutela degli stranieri residenti nel territorio della Repubblica della Polonia (Gazzetta Ufficiale del 13 giugno 2003 r. Nr 128 art. 1175), la legge sul rimpatrio (Gazzetta Ufficiale del 2004 r. Nr 53, art. 532).

Ma si può rischiare l’affermazione che dopo gli anni della chiusura fino al 1989 la Polonia ha silenziosamente adottato politiche di promozione dell’emigrazione? L’emigrazione non è stata mai dichiarata dal governo polacco come lo strumento per combattere la disoccupazione. Comunque in materia di emigrazioni per lavoro, il governo polacco ha promosso diverse attività mirate a consentire o facilitare ai cittadini polacchi di intraprendere un lavoro all’estero. Secondo i dati del Ministero del Lavoro e politiche sociali del 2002, la Polonia ha storicamente firmato almeno 14 accordi bilaterali in questo ambito[160]. Uno di questi accordi risale al 1980 (con la Libia), tutti gli altri invece appartengono al periodo dopo il 1989. Alcuni di loro hanno un background piuttosto ideologico, poiché appartengono alle politiche di creazione di un buon clima di vicinato, pur non portando a grandi possibilità occupazionali per i cittadini polacchi: quello con la Russia del 15 marzo 1994, con l’Ucraina del 16 febbraio 1994, oppure con la Bielorussia del 27 settembre 1995.

Altri accordi invece, che comunque riguardano soprattutto i lavoratori stagionali oppure i trainees, hanno consentito di intraprendere un lavoro ben remunerato a tanti cittadini polacchi. I più importanti sono quelli stipulati con la Germania del 1990 e 1994 (per i lavoratori polacchi stagionali, che non prevedevano un tetto massimo nel numero dei permessi), con la Francia del 1990, il Belgio del 1990, la Svizzera del 1994, il Lussemburgo del 1996 e con la Spagna del 2002. Solo l’accordo con la Germania, e poi quello con la Spagna, non prevedevano dei limiti nel numero dei lavoratori polacchi, gli altri accordi sopraelencati riguardavano rispettivamente da 30 (il caso di Lussemburgo) fino a 1000 persone (accordo con la Francia) all’anno.

Anche la posizione della Polonia durante le negoziazioni nell’ambito dei flussi del capitale umano prima dell’entrata in UE può far pensare all’esistenza di specifiche politiche a favore dell’emigrazione. La possibilità d’intraprendere l’occupazione all’estero è stata presentata, nel discorso mediatico in Polonia durante il periodo di negoziazioni, come uno dei più importanti vantaggi dell’adesione all’UE e i periodi di transizione imposti da alcuni Paesi sono stati spiegati come un inevitabile accordo con l’opinione pubblica di questi Paesi impaurita dall’apertura immediata del mercato del lavoro.

A partire dal 2002 sono emersi anche segnali che esperti e politici hanno cominciato a concepire la politica migratoria in modo più ampio, includendo nelle loro analisi o proposte sia i processi d’immigrazione che di emigrazione dal paese. Da allora ha avuto inizio un dibattito più approfondito intorno alle politiche migratorie, che si è concluso con la richiesta di formulare politiche più coordinate.

Il problema principale della politica migratoria polacca è, infatti, l’estrema dispersione delle responsabilità e nelle competenze. Ogni istituzione procede alla creazione della propria mini-politica nell’ambito delle migrazioni intraprendendo le attività che ritiene giuste. Molteplici organi dell’amministrazione statale si occupano delle migrazioni, ma manca un centro di coordinamento. Durante una seduta del Senato, nel 2006, Michal Dworczyk, rappresentante del Gabinetto Politico del Premier, ha denunciato episodi di doppio finanziamento per le attività delle associazioni dei polacchi all’estero, le quali, sfruttando la mancanza di coordinamento centrale, si rivolgono a diversi enti competenti in materia, per ottenere fondi da più istituzioni[161].

Le politiche migratorie ricadono nelle competenze soprattutto di due istituzioni: il Senato e il Ministero degli Esteri. Tuttavia, vi sono anche altre istituzioni che, in misura minore, influiscono sulla definizione di tali politiche. La prima di queste istituzioni è la Camera, attraverso la Commissione per i Contatti con i Polacchi all’Estero (Komisja do Spraw Lacznosci z Polakami za Granica). Va sottolineato che, in verità, i rapporti tra la Commissione e le comunità polacche all’estero sono molto scarsi, ciò di cui si lamentano i rappresentanti degli emigrati – mentre, assai spesso, gli stessi rappresentanti non mancano di rimarcare la propria soddisfazione per le relazioni con il Senato. Un’altra istituzione che interviene nel quadro è il Ministero dell’Interno, che a partire dal 2006 ha istituito il proprio Dipartimento per le Politiche Migratorie. Questo dipartimento, in prevalenza, si occupa di immigrazione. Tuttavia, non esaurisce i propri interventi in tale ambito ed elabora proposte di più ampio respiro, a includere anche l’emigrazione e gli emigrati.

III.2.3. Rapporti del Senato con i Polacchi all’estero dal 1989 fino ad oggi

L’organo dello stato che tradizionalmente si dedica ai contatti con i Polacchi all’estero è il Senato. Già nel 1929 per iniziativa del Senato fu organizzato il “I Congresso dei Polacchi all’Estero”. Durante quel Congresso fu fondata l’associazione “Swiatopol” che ha unito la maggior parte delle comunità polacche all’estero fino agli anni Novanta. Lo scopo delle attività dell’associazione è sempre stato il rafforzamento del legame con la Polonia e la cooperazione con le organizzazioni culturali ed educative.

Come ricordato nel capitolo introduttivo, il periodo successivo al secondo dopoguerra, con l’instaurazione di un regime comunista, ha visto una riduzione, se non una sospensione, delle politiche dedicate ai polacchi all’estero. Fu solo dopo la trasformazione del 1989 che il Senato, tornando alla tradizione, riprese il patronato sui Polacchi residenti fuori dai confini nazionali. Durante la prima seduta del Senato, tenutasi il 4 luglio 1989, fu subito avanzata la proposta di istituire la commissione che si sarebbe occupata dei Polacchi all’estero. In quello stesso mese, la commissione fu costituita, con il nome di Commissione per l’Emigrazione e i Polacchi all’Estero. Il presidente della Commissione fu scelto nella persona di Edmund Osmanczyk, figura assai nota nell’ambiente dell’emigrazione polacca. Della Commissione entrarono a fare parte 26 senatori, tra i quali esponenti della cultura come Andrzej Wajda e Gustaw Holubek.

Durante il primo mandato del Senato 1989 -1991, la Commissione si è riunita in dodici sedute e i suoi membri hanno compiuto numerose missioni all’estero per conoscere le comunità polacche nel mondo e approfondire le principali problematiche. Particolarmente significative sono state le missioni verso gli stati dell’ex Unione Sovietica, dove fino a quel momento ai Polacchi colà residenti non era consentito avere contatti con i parlamentari della madrepatria. Il 7 febbraio 1990 ha visto la costituzione dell’associazione “Comunità Polacca”, che ancora oggi è la più importante organizzazione di rappresentanza dei polacchi all’estero. Uno dei membri fondatori dell’associazione è stato il Presidente del Senato d’allora, Andrzej Stelmachowski, che diede ai Polacchi all’estero una speranza di miglioramento nelle politiche del paese nei loro confronti e, in questo modo, credito di fiducia alle nuove – rinate, dopo anni di socialismo di stato – istituzioni democratiche polacche.

Il più importante risultato raggiunto dalla commissione durante il primo mandato del Senato dopo la trasformazione del 1989 è stata la raccolta di informazioni riguardanti l’emigrazione polacca dispersa nel mondo. La commissione ha acquisito un quadro completo circa le principali istanze delle comunità polacche, le loro condizioni e le loro attività.

Durante il secondo mandato, negli anni 1991-1993, la Commissione per l’Emigrazione e Polacchi all’Estero è stata ridotta a 15 membri e si è riunita per 18 sedute. La maggior parte delle sedute è stata dedicata principalmente ai problemi dei Polacchi residenti all’Est. I membri della Commissione hanno compiuto diverse missioni in Lituania, Bielorussia e Ucraina. Hanno inoltre partecipato al Raduno dei Polacchi emigrati svoltosi a Cracovia a cavallo tra aprile e maggio 2001 e ai congressi dei Polacchi in Lituania, Lettonia, Russia, Finlandia, Repubblica Ceca, Danimarca e Kazakistan.

Durante il terzo mandato del Senato, negli anni 1993 – 1997, la Commissione si è riunita 94 volte e ne hanno fatto parte 17 membri. I lavori della commissione, così come l’evoluzione delle politiche verso gli emigrati, rispecchiano i cambiamenti avvenuti nella vita democratica del paese. Durante i due mandati precedenti, il lavoro della Commissione si era focalizzato sull’attività d’identificazione e avvicinamento alle comunità polacche fuori dai confini, durante il terzo mandato si è proceduto verso un’intensificazione dei contatti.

Il Senato, oltre a essere l’istituzione che ha il ruolo di mantenere i contatti con gli emigrati Polacchi, è anche l’ente che stanzia le somme più significative a sostegno delle attività degli emigrati. Fino al 1993 tutte le risorse venivano destinate all’attività dell’associazione “Comunità Polacca” e solo dal 1994 tra i destinatari dei fondi sono iniziate a comparire anche altre associazioni.

Durante il terzo mandato, come anche durante i due mandati precedenti, l’area molto interessata dell’attività della Commissione è stato il territorio dell’ex Unione Sovietica. La Commissione nel 1994 ha creato un database contenente l’elenco delle istituzioni e organizzazioni coinvolte nell’attività di sostegno, facilitando in questo modo un’armonizzazione delle singole azioni intraprese da queste associazioni. Per l’iniziativa della Commissione il Senato ha organizzato diversi incontri con i rappresentanti dei Polacchi all’estero. È importante menzionarne soprattutto uno: nel gennaio 1996, si è tenuto al Senato il congresso del “gruppo etnico polacco in Germania”. Uno dei primi importanti eventi che possiamo classificare come una manifestazione della nascente, anche se in modo caotico, politica emigratoria polacca, è la seduta plenaria del Senato durante la III legislatura, svoltasi nei giorni 4-5 marzo 1997, interamente dedicata ai problemi dei Polacchi emigrati all’estero. Durante questa seduta, per la prima volta si è affrontata la tematica connessa allo stato giuridico degli emigrati e l’adeguatezza dell’attività dell’amministrazione polacca rispetto ai bisogni degli emigrati. In quella occasione, intervennero non solo i parlamentari e i rappresentanti delle istituzioni che si occupavano dell’emigrazione, ma anche alcuni invitati: l’ultimo presidente della Repubblica della Polonia in Esilio, il rappresentante dell’Episcopato polacco, i parlamentari di origine polacca arrivati di diversi paesi e i rappresentanti delle organizzazioni ONLUS che collaborano con il Senato per la realizzazione delle missioni di assistenza per i Polacchi all’estero. La fine della legislatura ha fatto sì che non si riuscisse a preparare in tempo utile le leggi, in esecuzione del decreto approvato durante la seduta del Senato. La due giorni di lavori, infatti, si era conclusa con l’approvazione della risoluzione intitolata “Il legame del Polacchi all’estero con la Polonia”[162]. Con tale risoluzione il Senato ribadiva che i Polacchi residenti all’estero dovessero avere gli stessi diritti dei loro connazionali in patria, auspicava il cambiamento della legge sulla cittadinanza invitando a restituire la cittadinanza polacca ai Polacchi residenti nei territori ex Sovietici.

Durante la quarta legislatura del Senato (1997-2001) la Commissione, composta da 18 persone, si è riunita 69 volte. Le attività della Commissione in questo periodo possono essere divise in 3 categorie:

➢ Attività legislativa, che ha prodotto quattro proposte di legge: la legge sulla cittadinanza; la legge sulla Carta del Polacco; la legge sul rimpatrio; e la legge sullo stabilimento del 2 maggio come Giorno dei polacchi emigrati all’estero. Tutte queste leggi in seguito sono state approvate dal Senato, ma la Camera ha ratificato solo la legge sul rimpatrio del 9 novembre 2000, entrata in vigore dal 1 gennaio 2001.

➢ Attività d’intervento nelle vicende riguardanti i polacchi all’estero. Il Senato ha intrapreso diverse risoluzioni riguardanti i polacchi in Germania, in Gran Bretagna e in Georgia.

➢ Valutazione delle richieste poste dalle organizzazioni coinvolte nell’attività della collaborazione con e dell’assistenza verso le comunità polacche all’estero.

Tra il 28 aprile e il 2 maggio 2001 si è tenuta a Pultusk, in Polonia, il II Raduno dei Polacchi emigrati all’estero, durante il quale i rappresentanti dell’emigrazione ebbero occasine di avanzare le loro richieste in materia di riforma della legislazione esistente, tra cui la proposta di cambiare il metodo di nomina degli ambasciatori e dei consoli – prima di procedere alla nomina, secondo i rappresentanti degli emigrati, una commissione del Senato, creata appositamente, avrebbe dovuto esaminare i candidati, valutando la loro preparazione e le loro competenze rispetto alle esigenze delle comunità all’estero.

È stato in questa fase che si è proceduto anche al cambiamento della legge per l’elezione del presidente della Repubblica. Fino ad allora i polacchi residenti stabilmente all’estero potevano votare solo al primo turno, mentre all’eventuale ballottaggio non avevano diritto di partecipare. In seguito alla riforma, gli emigrati possono votare anche al ballottaggio.

Un'altra legge importante sulla quale ha lavorato il Senato, già menzionata, è stata la legge sul rimpatrio. Il Senato ha ritenuto questa questione molto importante, considerandola in qualche senso una riparazione delle ingiustizie subite dai Polacchi all’Est, provocate dal fatto che dopo la seconda guerra mondiale sono rimasti esclusi dalla Patria senza possibilità di ritorno. La legge sul rimpatrio, elaborata sulla base di una bozza preparata dal Senato e una seconda bozza preparata dal governo, è stata deliberata dalla Camera ed è entrata in vigore dal 1 gennaio 2001. La legge descrive i requisiti che devono essere rispettati, perché l’interessato possa chiedere il rimpatrio in Polonia[163].

Il Senato della quinta legislatura ha proseguito lungo il solco della collaborazione e cura dei Polacchi all’estero segnato dalle legislature precedenti. Il 30 aprile 2002 si è tenuta la plenaria parlamentare dedicata interamente ai problemi dei Polacchi residenti all’estero. Alla plenaria hanno partecipato, oltre ai parlamentari e al presidente della Repubblica, anche i rappresentanti delle comunità polacche all’estero. Alla base dell’organizzazione di tale plenaria è stata la necessità di stabilire insieme le priorità per le future attività del Senato.

Uno dei risultati della plenaria è stata la creazione del Consiglio di Consultazione (Polonijna Rada Konsultacyjna) soggetta al presidente del Senato. I membri del Consiglio sono scelti tra i rappresentanti delle più grandi organizzazioni dei Polacchi all’estero. Nel corso della stessa legislatura, il Senato ha anche finalizzato i lavori sulla proposta di legge che stabilisce nel 2 maggio il giorno di celebrazione dei polacchi residenti all’estero – legge approvata il 20 marzo 2002 dalla Camera.

Il 10 maggio 2003 per iniziativa del Presidente del Senato e del Presidente della Camere si è svolta la Conferenza dell’emigrazione polacca residente nei Paesi dell’Unione Europea, con lo scopo di intraprendere delle attività in prospettiva dell’ingresso della nazione nell’Unione Europea. Presero parte ai lavori tutti i rappresentanti delle 46 organizzazioni polacche presenti nei paesi membri. Durante la conferenza, i rappresentanti dell’emigrazione polacca hanno espresso, mediante una dichiarazione ufficiale, la loro soddisfazione per la firma del trattato di adesione all’UE, avvenuta il 16 aprile 2003 ad Atene. Nella stessa occasione, i rappresentanti delle comunità emigrate hanno diffuso un appello ai connazionali in patria, perché partecipassero al referendum sull’adesione, favorendone l’esito positivo.

Un passo importante, intrapreso nel corso della legislatura successiva, la sesta, è il tentativo di regolamentare in modo più ufficiale e controllato la collaborazione e l’assistenza prestata dal Senato alle comunità polacche all’estero. Il 5 gennaio 2007 il Senato ha inviato alla Camera una proposta di legge intitolata “Sull’assistenza del Senato ai polacchi all’estero”. Tale legge propone di istituzionalizzare i rapporti tra Senato ed emigrazione, nonché introdurre regole definite in materia di aiuto finanziario stanziato da tale organo dello stato in favore dei polacchi all’estero. L’obiettivo è quello di facilitare il coordinamento delle attività con gli altri enti statali ed evitare sovrapposizioni di competenze. Qualche settimana prima, il 12 dicembre 2006, era stato discusso in Senato il rapporto “Politica dello stato polacco verso i polacchi all’estero”, preparato dal Gruppo Interministeriale per i Polacchi all’Estero. Tale Rapporto aveva suscitato accese critiche e si era levata l’obiezione che avesse come obiettivo quello di spostare il baricentro delle relazioni con l’emigrazione – insieme al controllo sui finanziamenti – dal Senato al Governo.

Sempre durante il sesto mandato, il Senato ha continuato a occuparsi prevalentemente dei Polacchi dell’Est, ma si sono svolte anche alcune sedute dedicate alla cosiddetta “nuova emigrazione”, l’emigrazione per motivi di lavoro verso i paesi dell’Europa occidentale. Il 20 ottobre 2006, infatti, è stata organizzata la conferenza “Migrazioni per motivi di lavoro verso l’Unione Europea – le sfide per lo stato”. Alla conferenza hanno partecipato molti esperti della materia, che hanno illustrato ai senatori i dati delle più recenti ricerche sull’emigrazione, suscitando una vivace discussione.

Alla luce dei risultati ottenuti dalla conferenza e tenendo conto dell’importanza della “nuova” emigrazione, il 22 giugno 2007, il Senato ha nominato il Consiglio dei consulenti per l’emigrazione dei cittadini polacchi verso i paesi membri dell’Unione Europea per motivi di lavoro (Zespół Doradców ds. Migracji Ekonomicznej Obywateli Polskich do Państw Członkowskich Unii Europejskiej). A far parte del Consiglio sono i più illustri esperti di studi migratori presenti nella Repubblica polacca, insieme ai i rappresentanti delle organizzazioni dei polacchi residenti nei paesi dell’UE. Parallelamente a cio, il 24 luglio 2007, il Senato ha anche selezionato, sempre nell’ambito della Commissione per l’emigrazione, un gruppo interno chiamato a occuparsi delle migrazioni per lavoro verso i paesi dell’Unione Europea.

L’attuale mandato del Senato ha avuto inizio nell’autunno del 2007. Contestualmente, si è tenuto l’incontro inaugurale del Consiglio dei consulenti per l’emigrazione dei cittadini polacchi verso i paesi membri dell’Unione Europea per motivi di lavoro. Durante tale incontro il Presidente della Commissione per l’emigrazione ha sottolineato che l’emigrazione dei polacchi dopo il 2004 crea per il Paese allo stesso tempo difficoltà e opportunità.

Secondo le indicazioni degli esperti che siedono nel Consiglio dei consulenti, le priorità che la classe politica dovrebbe affrontare sono le seguenti:

- creazione di un sistema informativo per i migranti, ciò che permetterebbe loro di intraprendere decisioni collegate al loro status in modo cosciente, tenendo conto anche della realtà del paese della destinazione;

- riduzione del volume dell’emigrazione;

- introduzione di incentivi al ritorno ed eliminazione degli ostacoli al rimpatrio.

Gli stessi esperti hanno inoltre sottolineato anche che soprattutto gli emigrati più recenti e più giovani si muovono da “cittadini europei” ed è dunque essenziale che siano incoraggiati, nel paese di destinazione, a vivere in modo attivo la loro nuova condizione politica e sociale. Quest’ultima fase, quindi, sembra segnare una crescente consapevolezza da parte dello stato polacco, per ciò rche concerne l’importanza di politiche di sostegno verso i connazionali all’estero. Le autorità sembrano avere preso coscienza della situazione in cui si trova il paese, di attore in grado di intervenire attivamente nel quadro di opportunità disegnato dalla presenza di cospicue comunità all’estero. Lo stato parrebbe finalmente essere orientato ad assumere un ruolo da molto tempo atteso e auspicato dagli emigrati, i quali hanno manifestato da tempo l’esigenza di un sostegno della madrepatria nella loro lotta per i diritti e contro le discriminazioni nel mercato del lavoro.

Come già menzionato prima, il Senato è l’ente che dispone della maggior parte dei fondi destinati alla collaborazione ed all’aiuto dei polacchi all’estero. Il controllo viene esercitato su circa il 40 percento della somma totale, stanziata dallo stato a tale fine.

Graf. 2.2. Aiuto finanziario stanziato dal Senato per i Polacchi all’estero negli anni 1990-2007.

[pic]

Fonte: Pagina ufficiale del Senato polacco :

Analizzando il grafico vediamo che le somme stanziate stanno crescendo anno dopo anno. Inizialmente tutti i fondi venivano assegnati alle comunità residenti nell’Europa dell’Est. Molti di questi interventi erano mirati a una rinascita dello “spirito” polacco nei territori dell’ex-Unione Sovietica: si è sostenuto l’insegnamento della lingua polacca, si sono riavviati i contatti diretti tra gli emigrati dei paesi dell’ex Unione Sovietica e la Polonia, hanno visto la luce numerosi giornali in lingua polacca, seguiti da canali televisivi e radiofonici. Il Senato ha finanziato anche la costruzione di opere come scuole polacche, centri della cultura polacca e sedi di associazioni polacche. Oltre al sostegno alla diffusione della cultura e della lingua polacca, ci sono contributi anche per sovvenzionare la piccola impresa, la formazione e la disseminazione di informazioni sulle leggi internazionali a tutela dei diritti delle minoranze etniche.

Le politiche rivolte alle comunità polacche stabilitesi in Europa occidentale presentano caratteri totalmente diversi da quelle implementate verso l’Est europeo. I polacchi residenti all’Ovest, trovandosi in democrazie di lungo corso hanno potuto da tempo organizzarsi liberalmente e, di conseguenza, acquisire esperienze autonome nell’attività politica, sociale e culturale locale. Sono gli stessi emigrati all’Ovest che, in certa misura, hanno aspettative differenti e determinano una serie di comportamenti diversi da parte delle autorità polacche. Ciò che chiedono è soprattutto un appoggio alle iniziative che essi indirizzano verso le autorità dei paesi di destinazione.

III.2.4 Le attività del ministero degli Esteri

La tutela dei Polacchi all’estero è anche uno dei compiti del ministero degli Esteri. Il ministero, è ovvio, gestisce e monitora l’attività delle rappresentanze dello stato polacco all’estero (le ambasciate, i consolati, i vari “istituti” polacchi)[164]. Le attività del ministero nell’ambito della tutela dei polacchi all’estero non sono così ampie come le attività del Senato, perché il ministero non dispone delle risorse finanziarie adeguate. Il ministero dispone di circa 5% della somma totale destinata dallo stato ai fini di cooperazione e aiuto ai polacchi all’estero[165]. Nell’anno 2007 il Ministero ha distribuito 6.901.000 Euro*** per le attività nell’ambito dell’educazione e divulgazione della cultura polacca tra le comunità dei polacchi all’estero.

Negli ultimi anni anche il ministero ha modificato il proprio indirizzo di intervento nella direzione di attività più decise e più mirate a soddisfare i bisogni degli emigrati. La manifestazione di questo cambiamento si traduce nei diversi programmi elaborati ed avviati da questo ente. Nell’anno 2002 il ministero ha presentato la prima versione del “Programma del governo per la cooperazione con i polacchi all’estero” (Rzadowy Program Wspolpracy z Polonia i Polakami za Granica) Ad ottobre 2007 il ministero degli Esteri ha pubblicato la versione aggiornata di questo programma. Si tratta del primo programma completo che stabilisce una gerarchia in tutte le attività delle amministrazioni verso gli emigrati, attribuendo anche precise responsabilità alle diverse istituzioni[166].

Le principali linee e gli orientamenti del programma sono i seguenti:

a) Protezione delle persone di provenienza polacca e tutela della “nuova emigrazione”

b) Educazione, istruzione pubblica e sport

c) Cultura, patrimonio nazionale e politica storica

d) Media dei polacchi all’estero

e) Organizzazioni dei polacchi all’estero

f) Aiuto ai polacchi all’Est, rimpatrio, migrazioni

g) Cooperazione nell’ambito economico e supporto all’imprenditoria dei polacchi residenti all’estero

Il Programma descrive i compiti delle singole istituzioni, tra le quali:

a) Ufficio amministrazione/cancelleria del Governo

b) Ministero degli Esteri

c) Ministero dell’Istruzione Pubblica

d) Ministero dell’Economia

e) Ministero del Cultura e del Patrimonio Nazionale

f) Ministero della Scienze e dell’Istruzione Superiore (Universitaria)

g) Ministero dello Sport e del Turismo

h) Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

i) Ufficio per i Combattenti

Il Programma elenca le attività progettate per queste istituzioni fino all’anno 2012.

A febbraio 2007 il ministero ha presentato un altro programma “Vicino al lavoro, vicino alla Polonia” (Blizej pracy, blizej Polski). Il progetto contiene un piano di azioni che hanno come obiettivo di migliorare la tutela dei cittadini polacchi all’estero e facilitare il loro accesso alle sedi di appresentanze del paese. Secondo l’indagine condotta dal ministero, in seguito alla non indifferente emigrazione dei cittadini Polacchi dopo l’adesione della Polonia all’Unione Europea, in alcuni paesi di destinazione di questa emigrazione il numero delle pratiche nei consolati è cresciuto di quattro volte, rimanendo immutata la composizione delle strutture. Il ministero ha dunque deviso di avviare una riforma delle sedi di rappresentanza. La ristrutturazione riguarda sia il personale che le strutture, e prevede anche un’azione si stampo informativo. Una delle nuove rappresentanze create seguendo le linee guida del programma è il Consolato Generale della Repubblica di Polonia a Catania, aperto l’11 novembre 2007.

Il progetto sottolinea anche l’importanza delle attività di informazione dirette agli emigrati. Auspica la diffusione di informazioni riguardanti le condizioni di vita nei paesi di destinazione, sulle leggi, sui diritti che gli emigrati hanno in quei paesi. Il progetto sostiene che un punto rilevante, per facilitare l’integrazione, anche politica, dei connazionali all’estero, stia nella stretta collaborazione delle istituzioni polacche con i loro equivalenti all’estero.

III.2.5 Un nuovo progetto del governo: Ritorno

Il 24 novembre 2008 è partito un nuovo progetto del governo indirizzato ai polacchi emigrati dal paese alla ricerca di un lavoro. Il progetto ha intenzione d’aiutare quelle persone che decideranno di tornare in patria. Per comunicare con gli emigrati il Governo ha utilizzato prevalentemente Internet. È stato creato il sito .pl, dove gli emigrati possono trovare, oltre alle notizie di attualità riguardanti la Polonia, anche diversi consigli in merito a una prospettiva di rientro. È stata redatta la guida “Ritorno – la navigazione per chi rientra” destinata agli emigrati e che può essere scaricata gratuitamente dal sito. Il portale organizza anche delle chat con gli esperti di diverse materie, che rispondono alle domande degli utenti. Gli emigrati possono rivolgersi all’amministrazione via mail con la certezza di ricevere la risposta.

La Polonia, appartenendo senza dubbi al gruppo labour exporting countries individuato tra le sending countries secondo la categorizzazione di Eva Ostergaard-Nielsen[167], negli ultimi anni ha sperimentato un avanzamento nel disegno e nell’implementazione delle politiche migratorie. Il primo successo è il cambiamento della percezione delle politiche migratorie come politiche indirizzate solo verso gli immigrati. L’amministrazione polacca sembra inoltre avere compreso che cosa si aspettano dalla patria gli emigrati. Sia Senato che ministero degli Esteri e Governo, oltre alle tradizionali azioni di aiuto materiale verso i polacchi all’estero, sono sempre più attivi in azioni di sostegno alla lotta dei connazionali all’estero per l’affermazione dei loro diritti nelle nuove realtà e in azioni d’incoraggiamento a prendere parte alla vita politica e sociale del paese di destinazione. Possiamo affermare che la Polonia, in cambio delle rimesse dei suoi cittadini, ha riconosciuto le proprie responsabilità di governo anche dei cittadini emigrati.

III.3 La comunità polacca in Italia: i casi di Roma e Torino.

III.3.1. Comunità polacca in Italia oggi

Come abbiamo detto nel paragrafo III.1, l’Italia da lungo tempo è una delle mete privilegiate dei polacchi. Tuttavia, va notato che negli ultimi tempi la scelta dell’Italia come paese di destinazione subisce un trend negativo.

Tab. 3.1 I più importanti paesi dell’emigrazione nei 2ndi trimestri degli anni 2000-2007

| |2000 |2001 |

|Fino a 17 |1.338 |2 |

|18-24 |7.161 |9 |

|25-29 |15.254 |19 |

|30-34 |16.565 |21 |

|35-39 |11.000 |14 |

|40-44 |7.795 |10 |

|45-49 |7.986 |10 |

|50-54 |6.484 |8 |

|55-59 |3.429 |4 |

|60 e più |1.918 |2 |

|Totale |78.930 |100 |

Fonte: Elaborazioni proprie su dati Istat

Per quanto riguarda la scelta della Regione di destinazione, più di un quinto della popolazione polacca residente in Italia abita nella Regione Lazio, dove i 20.000 polacchi registrati rappresentano la terza comunità di stranieri. Altre regioni con una significantiva presenza di Polacchi sono l’Emilia Romagna e la Campania, dove se ne contano quasi 10.000.

La comunità polacca in Italia è composta per il 70% da donne. La percentuale di femminilizzazione cresce nelle regioni del Sud – in Sicilia e Sardegna le donne sono l’80 % della popolazione polacca complessiva, in Campania, Calabria e Basilicata il 76 %.

Tab. 3.3 Polacchi residenti nelle Regioni italiane al 1 gennaio 2008

|Regione |Totale M e F |Femmine |Maschi |% di Femmine |

|Lazio | 21.077 | 13.494 | 7.583 |64 |

|Emilia-Romagna | 9.725 | 7.226 | 2.499 |74 |

|Campania | 9.340 | 7.135 | 2.205 |76 |

|Toscana | 7.659 | 5.663 | 1.996 |74 |

|Lombardia | 7.495 | 5.329 | 2.166 |71 |

|Veneto | 4.906 | 3.082 | 1.824 |63 |

|Marche | 4.503 | 3.051 | 1.452 |68 |

|Sicilia | 4.475 | 3.570 | 905 |80 |

|Calabria | 3.329 | 2.515 | 814 |76 |

|Piemonte | 2.800 | 1.911 | 889 |68 |

|Abruzzo | 2.698 | 1.878 | 820 |70 |

|Umbria | 2.672 | 1.798 | 874 |67 |

|Puglia | 2.586 | 1.893 | 693 |73 |

|Trentino - Alto Adige | 2.087 | 1.360 | 727 |65 |

|Liguria | 1.460 | 1.067 | 393 |73 |

|Friuli - Venezia Giulia | 1.359 | 846 | 513 |62 |

|Sardegna | 969 | 778 | 191 |80 |

|Molise | 482 | 329 | 153 |68 |

|Basilicata | 454 | 347 | 107 |76 |

|Totale | 90.076 | 63.272 | 26.804 |70 |

Fonte: Elaborazioni proprie su dati Istat.

III.3.2. La comunità polacca a Torino

La comunità polacca a Torino non è una comunità molto grande e non incide nemmeno in misura significativa sulla comunità totale degli stranieri residenti in questa città – solo circa lo 0,5% degli stranieri a Torino è di nazionalità polacca. Il caso, dunque, appare meno quantitativamente significativo degli altri due affrontati negli altri capitoli del rapporto.

Tab. 3.4 Residenti stranieri e residenti polacchi a Torino (2003-2007, al 31 dicembre)

| |Totale residenti |Totale residenti |% polacchi su residenti |

|Anno |stranieri |polacchi |stranieri |

|2003 |55.500 |346 |0,62 |

|2004 |69.312 |396 |0,57 |

|2005 |76.807 |433 |0,56 |

|2006 |83.977 |485 |0,58 |

|2007 |102.921 |521 |0,51 |

|Variazione |+ 85,4 stranieri |+ 50,6 polacchi |

|2003-2007 | | |

Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Per quanto riguarda la composizione della comunità polacca, la maggior parte è costituita da donne, ma a Torino il tasso di femminilizzazione è nettamente più basso che in Italia in generale.

Tab. 3.5 Popolazione polacca residente – 31 dicembre 2007 nelle diverse ripartizioni geografiche

| |Maschi |Femmine |Totale M e F |% di Femmine |

|Piemonte |889 |1.911 |2.800 |68,25 |

|Provincia di Torino |341 |868 |1.209 |71,79 |

|Comune di Torino |142 |379 |521 |72,74 |

Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Secondo i dati del comune di Torino, all’ottobre 2008 c’erano solo 548 polacchi residenti in questa città. La comunità polacca a Torino non è dunque grande, ma è una comunità importante data la sua storia. La comunità polacca a Torino è una delle più antiche comunità polacche in Italia. Tracce della presenza polacca a Torino possiamo trovarle già nel 1849, quando viene fondata dal comune per iniziativa di alcuni cittadini polacchi ed alcuni italiani la Società per l’alleanza italo-slava. Dopo, durante tutto il secolo, possiamo trovare altri segnali che confermano la presenza dei polacchi a Torino in quel periodo. Dopo la prima guerra mondiale a Torino viene nominato console polacco A. Begey. Nel 1930 a Torino sorge Istituto della Cultura polacca, fondato dalle figlie di Begey. L’Istituto funziona come un’unità indipendente presso l’Università e il suo ruolo è la divulgazione della cultura polacca.

Dopo la fine delle seconda guerra mondiale a Torino rimangono alcuni soldati polacchi che non possono tornare in patria per motivi politici. A questi viene concessa la possibilità di completare gli studi e così nel 1946 al Politecnico di Torino si iscrivono 340 polacchi. Con il passare del tempo la maggior parte di loro lascia Torino, solo una quindicina di loro rimanendo darà inizio alla Associazione ‘Comunità polacca a Torino’[168].

III.3.3. La comunità polacca a Roma

La comunità polacca a Roma è la terza comunità straniera in città per grandezza, dopo quelle Rumena e Filippina.

Tab. 3.6 Residenti stranieri e residenti polacchi a Roma (2003-2007, al 31 dicembre).

| |Totale residenti |Totale residenti |% polacchi su residenti |

|Anno |stranieri |polacchi |stranieri |

|2003 |122.758 |6.523 |5,31 |

|2004 |145.004 |7.611 |5,25 |

|2005 |156.833 |8.609 |5,49 |

|2006 |199.417 |10.614 |5,32 |

|2007 |218.426 |11.361 |5,20 |

|Variazioni |+ 103% stranieri |+ 77,9 polacchi |

|2003-2007 | | |

Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Alla fine del 2007 a Roma abitano regolarmente più di 11.000 polacchi, mentre nella Provincia ce ne sono 18.000 e nella Regione Lazio più di 21.000, un quinto, quindi, dell’intera comunità polacca in Italia.

Tab. 3.7 Popolazione polacca residente – 31 dicembre 2007 nelle diverse ripartizioni geografiche

| |Maschi |Femmine |Totale M e F |% di Femmine |

|Lazio |7.583 |13.494 |21.077 |64,02 |

|Provincia di Roma |6.523 |11.628 |18.151 |64,06 |

|Comune di Roma |3.765 |7.596 |11.361 |66,86 |

Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Come si vede nella tabella 3.7 anche a Roma la maggior parte della comunità polacca è rappresentata da donne, ma qui il tasso di femminilizzazione è più basso di quello nazionale di circa 6 punti percentuali.

La comunità polacca a Roma, essendo una comunità abbastanza numerosa, è anche ben organizzata. A Roma esistono negozi polacchi, librerie, biblioteche, agenzie di viaggio e anche una discoteca polacca. A Roma funziona un liceo polacco e da quest’anno due università polacche hanno cominciato la loro attività durante il weekend. In questo modo i cittadini polacchi residenti e lavoranti a Roma possono durante il weekend frequentare l’università in lingua polacca. A Roma sono pubblicate anche tre riviste polacche.

Un elemento importante che caratterizza la comunità polacca a Roma è il suo legame con la Chiesa cattolica. A Roma si trovano 6 chiese che celebrano la messa in lingua polacca e almeno due comunità religiose polacche presso altre parrocchie. Le chiese offroni alle comunità un luogo di inconrtro, aiuto legale e corsi di lingua italiana. La chiesa polacca più antica e più conosciuta è la chiesa di San Stanislao. È stata costruita nel 1578 per iniziativa di un cardinale polacco con annesso ospizio per studenti e pellegrini polacchi. Nel 1982 la chiesa di San Stanislao ha ottenuto lo status di parrocchia nazionale dei polacchi a Roma e per adesso rimane l’unica chiesa nazionale polacca in Italia. Le messe avvengono talvolta con celebrazioni bilingue poiché vi sono tanti matrimoni misti. Questa è l’unica chiesa polacca in Italia che può rilasciare i certificati in lingua polacca che poi hanno valore legale. La chiesa, si diceva, è anche punto d’incontro socio-culturale. È diventata il punto di riferimento per tanti polacchi, soprattutto quelli delle ultime ondate migratorie. Ma non solo per quelli, perché la chiesa è frequentata anche dalle persone che vivono in Italia da 10-15 anni e da coppie miste. Nella sala-caffetteria all’interno della chiesa i polacchi possono ogni giovedì e domenica incontrarsi con i connazionali, leggere i giornali polacchi e guardare la TV polacca. Presso la chiesa si organizzano diversi incontri e feste in occasione di festività tradizionali e popolari polacche.

III.3.4. Associazioni polacche a Roma e Torino

Il legame tra transnazionalismo degli immigrati e la loro propensione all’associazionismo sarà esaminato nel prossimo capitolo, come uno degli aspetti investigati grazie alle interviste con i cittadini polacchi residenti a Roma e Torino. Qui possiamo presumere che tale legame esista, anche se la maggior parte delle associazioni dei polacchi in Italia si riconoscono come apolitiche. La loro attività è piuttosto definita come attività culturale oppure religiosa e questo fatto è molto sottolineato dalle associazioni stesse.

Non esiste un elenco ufficale delle organizzazioni ed associazioni polacche all’estero. Né le istituzioni polacche sul territorio patrio, né le istituzioni polacche sul territorio italiano hanno il registro di queste associazioni. Esiste invece l’Unione delle Associazioni Polacche in Italia, che è la fonte più aggiornata per le informazioni riguardanti l’associazionismo dei cittadini polacchi in Italia. L’iniziativa di creare un'organizzazione che unisca rappresentanti di varie associazioni polacche sparse in tutta l'Italia nacque nel 1995. Possono diventare membri di tale Associazione, accanto alle organizzazioni polacche, anche quelle italo polacche composte da almeno venti soci contribuenti. L'obiettivo principale dell'Associazione è quello di unire i polacchi in Italia, di creare rapporti reciproci tra persone di origine polacca, di approfondire i legami con la cultura e la tradizione polacca, di rinforzare il senso di identità nazionale e quello di contribuire a creare un'immagine positiva della Polonia e dei polacchi in Italia. L'Associazione si pone anche come fine di rafforzare, in tutti i campi, i rapporti plurisecolari tra entrambi i popoli; rappresenta la comunità polacca di fronte alle autorità italiane, coltiva le tradizioni storiche relative alla presenza dei polacchi sul territorio italiano, offre cura ad anziani membri della comunità polacca, riserva un'adeguata accoglienza ai nuovi immigrati e contribuisce a preservare il senso dell'identità polacca nelle generazioni nate e cresciute in Italia

Ciononostante, i polacchi in Italia non sembrano esibire molta propensione all’associazionismo. Bisogna annotare che questa è una caratteristica riguardante anche i Polacchi rimasti in patria. Secondo le ricerche condotte dal CBOS nell’anno 2008 sull’associazionismo e il capitale civile dei polacchi, risulta che solo il 7% si dedica ad attività nell’ambito di associazioni. Il 4% ammette di essere iscritto ma non come mebro attivo presso associazioni e la grandissima maggioranza (89%) dichiara di non aver niente a che fare con alcuna associazione[169].

La succitata Unione delle Associazioni Polacche, fondata nel 1995, contiene 23 associazioni polacche in tutta Italia, tra le quali 5 funzionano a Roma[170] e una a Torino[171]. Il comune di Roma riconosce invece 7 associazioni polacche sul proprio territorio, tra le quali:

1. Unione delle Associazioni dei Polacchi in Italia

2. Associazione culturale AIPRO. I suoi soci sono italiani, polacchi di vecchia e recente immigrazione e famiglie italo polacche. Organizza incontri conviviali per scambiare informazioni sulla situazione in Polonia e le relazioni con l'Italia. Partecipa a concerti di solisti polacchi, opere teatrali, convegni scientifici.

3. Associazione Nazionale Cattolica Culturale Italo-Polacca di Ostia. L’Associazione culturale e cattolica si è costituita nel 2004. Gli scopi dell’associazione sono: l’aiuto e l’assistenza agli immigrati polacchi in Italia, soprattutto attraverso l’informazione; la coltivazione delle tradizioni nazionali polacche; la promozione dell’integrazione con la società italiana, la promozione della cultura polacca. L’associazione organizza diverse iniziative culturali, incontri conviviali e feste in occasione delle festività tradizionali e popolari polacche

4. N.A.P.E. - Nuova Associazione Polacchi all’Estero La N.A.P.E., con sede a Roma, vuole rivolgersi ai polacchi che vivono e lavorano all'estero. La prima finalità della N.A.P.E. è quella di accrescere l’unione fra i polacchi approfondendo i valori tradizionali della cultura polacca e promulgandone la conoscenza tra gli italiani. La N.A.P.E. organizza concerti, mostre, visite culturali sia per i polacchi in Italia che per coloro che si recano nel nostro paese (soprattutto nelle città di Cracovia e di Częstochowa). Partecipa a programmi di scambio interculturali a livello Europeo. Svolge una attività di promozione della cultura e della tradizione polacca.

5. Polandia – Polacchi per l’Integrazione Europea. Associazione culturale nata nel 2002. Tra le finalità dell’associazione vi è quella di favorire, promuovere e organizzare iniziative di turismo sociale e giovanile nel campo dei beni culturali, archeologici, naturalistici, storici e di memoria collettiva nonché organizzare eventi culturali: mostre, presentazioni, incontri, conferenze stampa, convegni, concorsi, festival, spettacoli, feste, proiezioni, concerti, campagne di sensibilizzazione.

6. Polka – Roma, Italia. Si tratta di un’organizzazione volontaria di donne polacche e di lingua polacca che vivono nel territorio italiano, che ha come scopo principale la salvaguardia delle tradizioni e della cultura polacca e l’aiuto reciproco. L’associazione è conosciuta a Roma soprattutto per le feste che radunano la comunità polacca del Lazio. I principali appuntamenti sono: la prima domenica di giugno (subito dopo il 1 giugno, quando in Polonia viene celebrata la Festa del Bambino) e i picnic in primavera (maggio) e in autunno (inizio ottobre).

7. Quo vadis - Associazione Cristiana dei Polacchi in Italia. Esiste dall’anno 1996. L’opera dell’associazione si basa sul lavoro degli immigrati-volontari e si sviluppa nell’ambiente degli immigrati affluiti in cerca di un guadagno migliore. Dall’inizio collaborano con “Quo vadis” anche cittadini italiani volontari. Gli scopi dell’associazione sono l’aiuto e l’assistenza agli immigrati polacchi in Italia, soprattutto attraverso l’informazione; la coltivazione delle tradizioni nazionali polacche; la promozione dell’integrazione con la società italiana; la promozione della cultura polacca.

Il numero definitivo delle associazioni a Roma è difficile da stabilire, dato che nessun ente ha l’obbligo di tenere un registro delle associazioni.

L’unica associazione torinese è molto interessante dato che è la più antica in Italia. È stata fondata ufficialmente nel 1993, ma la sua attività ha avuto inizio diversi decenni prima, subito dopo la seconda guerra mondiale. Oggi l’associazione torinese conta oltre 250 famiglie e circa 50 soci individuali.

Un fenomeno interessante, non connesso strettamente alle associazioni, ma avente a che fare con le relazioni tra i polacchi, si sta creando in Internet. Sul sito nasza-klasa.pl (il portale polacco corrispondente a Facebook) si sono create reti di polacchi residenti nelle diverse parti del mondo. E così troviamo pure i polacchi in Italia con 8015 persone iscritte, i polacchi a Roma (2430 unità), i polacchi a Torino (405). Ovviamente l’iscrizione non implica che la persona iscritta risieda per forza dove si è iscritta, ma nella gran parte dei casi è così. La rete serve agli immigrati a scambiare informazioni utili, opinioni, mantenere il contatto con la comunità polacca, organizzare gli incontri ecc.

III.3.5 La partecipazione politica dei polacchi in Italia: il voto all’estero del 2005 e 2007

I polacchi all’estero possono partecipare alle elezioni a condizione d’essere iscritti nell’elenco degli elettori. Come stabilisce la legge riguardante le condizioni di partecipazione alle elezioni, gli elenchi vengono preparati dai consoli. I cittadini polacchi in possesso del passaporto possono fare richiesta d’inclusione in tali elenchi fino a 5 giorni prima del voto. Le richieste possono essere orali, scritte, trasmesse via telefono o via fax. Durante le ultime elezioni polacche, in Gran Bretagna è stato promosso il sito wybory.co.uk, dove i cittadini polacchi potevano iscriversi tramite internet. Il sito ha riscontrato molto interesse.

Tab. 3.8 Affluenza nelle elezioni per il parlamento secondo il distretto

| |Abilitati al voto |Schede elettorali |Numero dei voti |Numero delle schede distribuite/ numero degli |

| | |distribuite | |abilitati al voto (%) |

| | | |Effettuati |Validi | |

|Città |19.079.570 |11.209.334 |11.195.701 |11.015.153 |58.75 |

|Campagna |11.344.855 |5.136.130 |5.132.689 |4.979.913 |45.27 |

|Navi |348 |337 |337 |324 |96.84 |

|Estero |190.698 |149.244 |149.007 |146.812 |78.26 |

Fonte: pagina ufficiale delle autorità polacche responsabili per le elezioni .pl

Le elezioni dell’anno 2007 hanno registrato, rispetto alle elezioni precedenti, una maggiore partecipazione dei polacchi. Secondo le statistiche ufficiali, alle urne elettorali si sono presentati in 16 milioni, quindi il 53,88%, degli aventi diritto di voto. È un risultato soddisfacente dato che nel 2005 avevano votato solo in 12 milioni (40,5 %). Ovviamente questa affluenza è data soprattutto dai polacchi che hanno votato in patria, ma i media hanno prestato molta attenzione al voto all’estero, dove alle urne ci si sono presentati 190 mila connazionali, quasi cinque volte in più rispetto alle elezioni del 2005.

Tab. 3.9 Dati riguardanti il voto all’estero nelle elezioni del 2005 e 2007

| |Elezioni del 2005 |Elezioni del 2007 |

|Abilitati al voto |49.840 |190.698 |

|Schede elettorali distribuite |35.679 |149.244 |

|Numero dei voti effettuati |35.611 |149.007 |

|Numero dei voti validi |34.761 |146.812 |

|Affluenza |71,59 % |78,26 % |

Fonte: pagina ufficiale delle autorità polacche responsabili per le elezioni .pl

Nonostante questo dato, che può sembrare ottimistico, l’effettiva partecipazione dei polacchi all’estero al voto è stata ridimensionata dalla Fondazione di Helsinki per i Diritti Umani (Helsinska Fundacja Praw Czlowieka), secondo la quale alle elezioni hanno partecipato solo 1/30 dei Polacchi emigrati in Germania, 1/16 di quelli emigrati in Gran Bretagna e 1/9 di quelli emigrati in Irlanda. L’Italia non si distingue dal generale trend d’incremento nella partecipazione al voto nel 2007 rispetto al 2005, ma anche qui la partecipazione sarebbe scarsa – al voto hanno partecipato solo 3461 persone (nel 2005 solo 1494 persone).

Tab. 3.10 Elezioni parlamento 2005

|Indirizzo del distretto |Abilitati al |Le schede |Voti |Voti validi |

| |voto |elettorali |effettuati | |

| | |distribuite | | |

|Roma I, Ambasciata RP Via P. P. Rubens 20 |1.000 |648 |648 |623 |

|Roma II, Ufficio Consolare della Ambasciata RP Via San Valentino 12 |1.841 |621 |621 |605 |

|Milano, Consolato Generale RP Corso Vercelli, 56 |283 |225 |225 |221 |

Elezioni parlamento 2007

|Indirizzo del distretto |Abilitati al |Le schede |Voti |Voti validi |

| |voto |elettorali |effettuati | |

| | |distribuite | | |

|Roma I, Ambasciata RP Via P. P. Rubens 20 |5.153 |2.402 |2.402 |2.392 |

|Milano, Consolato Generale RP Corso Vercelli, 56 |1.095 |958 |958 |957 |

|Catania, Consolato Generale RP, Via Monsignor Ventimiglia 117, VI p |101 |101 |101 |95 |

Fonte: pagina ufficiale delle autorità polacche responsabili per le elezioni - Commissione Elettorale Statale (Panstwowa Komisja Wyborcza) .pl

La legge elettorale prevede la creazione di speciali seggi elettorali per i cittadini polacchi all’estero. Nelle elezioni del 2005 sono stati creati 161 seggi all’estero, in quelle del 2007 – 206 (per quanto riguarda l’Italia è ora presente un seggio anche a Catania)[172]. Argomento molto importante ed ultimamente molto discusso è quello relativo al fatto che i polacchi all’estero votano per i candidati del distretto di Varsavia. In pratica questo fa si che i voti dall’estero vengano aggiunti a quelli dei residenti di Varsavia, e quindi il loro peso si perda nei voti della popolazione della capitale polacca. In questo modo i Polacchi all’estero non hanno una effettiva rappresentanza in parlamento.

Di fatto dopo le elezioni del 2007 la Fondazione di Helsinki ha presentato una proposta di cambiamento in questa materia. Secondo la Fondazione i Polacchi emigrati all’estero dovrebbero avere la possibilità di scegliere i loro effettivi rappresentanti ed a questo scopo dovrebbe essere creato un nuovo distretto di voto con una propria lista di candidati (per il momento ce ne sono 16 – il numero di voievodati in Polonia). La Fondazione argomenta, che questo cambiamento potrebbe indurre i polacchi a votare perché si sentirebbero veramente rappresentati da persone che ne conoscono la condizione.

III.4 L’indagine empirica nelle città di Roma e Torino

Questo capitolo è il risultato di una ricerca sul campo condotta a Roma e Torino. Sono state condotte 80 interviste – 40 in ciascuna delle 2 città. In una fase preliminare, antecedente alla realizzazione delle interviste, si è reso necessario un primo approccio esplorativo con i potenziali intervistati, al fine di creare un rapporto di fiducia tra intervistatore ed intervistato. A tal fine si è rivelato importante il contatto con i “community leader”, che a loro volta ci hanno introdotti nell’ambiente di ricerca. A volte è stato fondamentale frequentare i luoghi di ritrovo delle persone di nazionalità polacca a Roma e Torino, per attenersi al metodo di selezione casuale del campione intervistato. Tale strategia ha permesso una iniziale conoscenza della comunità polacca presente sul territorio di Roma e di Torino, permettendo allo stesso tempo la creazione di un rapporto di confidenza che ha facilitato, in seguito, la realizzazione delle interviste.

Per la scelta del campione, però, è stata alla fine utilizzata nella maggior parte dei casi la tecnica snowball, put avendo mantenuto una buona percentuale di intervistati anche in modo casuale. Nella creazione del campione si è cercato di rispettare la composizione (per genere ed età) della comunità polacca in Italia, descritta nel capitolo precedente.

Per quanto riguarda i dati anagrafici delle persone intervistate, per la maggior parte si è trattato di donne in età tra 40 e 49 anni.

Tab. 4.1 Età e genere delle persone intervistate

|Età |Roma |Torino |

| |Femmine |Maschi |Femmine |Maschi |

|Fino a 29 anni |3 |2 |6 |4 |

|30 – 39 |5 |1 |3 |1 |

|40 – 49 |13 |4 |12 |3 |

|50 – 59 |10 |1 |9 |2 |

|60 – 69 |1 |0 |0 |0 |

Per quanto riguarda la provenienza delle persone, non c’e’ una concentrazione significativa, le persone provengono da quasi tutti i voievodati polacchi. Tuttavia, possiamo notare che ci sono molti che sono partiti dalle regioni a Est e Sud della Polonia (voievodato podlaskie, lubelskie, podkarpackie, malopolskie e dolnoslaskie). Per quanto riguarda la grandezza della città di residenza in Polonia, anche qui non troviamo una risposta dominante. Una sola persona proviene da una città con meno di 1000 abitanti, 2 da città con 1000 – 5000 abitanti e 5 persone provengono da città con più di 500.000 mila abitanti. Altre risposte sono distribuite tra città di media grandezza da 15.000 fino a 50.000 abitanti.

In questo capitolo vengono analizzati i comportamenti dei cittadini polacchi verso associazionismo, politica e partecipazione alla vita sociale e civile al fine di poter affermare se i polacchi si caratterizzano per comportamenti transnazionali in tali ambiti oppure no. Viene indagato il loro livello di conoscenza della politica e di interesse per la politica sia del paese di provenienza che di destinazione.

Per quanto riguarda le visite in Polonia, le persone intervistate tornano in Polonia di solito una volta all’anno e la frequenza dei loro ritorni non ha subito dei cambiamenti da quando la Polonia è entrata nell’Unione Europea. Non vi è sostanziale differenza tra i 2 campioni – quello di Roma e quello di Torino. Per quanto riguarda invece i contatti con l’ambasciata oppure il consolato, tra gli intervistati di Torino solo 4 persone hanno avuto tale contatto durante l’ultimo anno e tra gli intervistati di Roma se ne riscontrano 11. Causa di questa differenza è sicuramente che il consolato più vicino a Torino si trova a Milano.

La conoscenza della situazione politica in Polonia sembra essere condizionata da due fattori preponderanti: il sesso e l’età. Gli uomini sono più interessati alla situazione politica rispetto alle donne. Per quanto riguarda l’età invece, le persone più giovani sono meno interessate, soprattutto se mancano dalla Polonia da più tempo. Le persone più anziane sono generalmente più interessate alla politica polacca e il fattore della lunghezza di soggiorno in Italia non incide sul livello di loro interesse per le politiche della patria.

Solo una delle persone intervistate apparteneva in Polonia ad un partito (ma ora non più), 5 invece appartenevano al sindacato (ma non ne fanno più parte). Nessuno collaborava con le associazioni[173].

Al momento della partenza dalla Polonia quasi tutti gli intervistati sapevano come si chiamava il loro sindaco, ma solo la metà conosceva il nome del presidente della regione della propria residenza. Per quanto riguarda l’attuale sindaco, solo circa un terzo delle persone intervistate ne conosce il nome, ancora meno sono quelli a conoscenza del presidente della regione. La conoscenza delle coalizioni che governano la regione di residenza è molto scarsa, sicuramente a causa del fatto che nelle elezioni locali gli elettori si basano per le loro preferenze sui candidati piuttosto che sulla loro appartenenza politica e quindi i partiti a livello locale non hanno lo stesso peso che a livello nazionale. Neanche qui notiamo una significativa differenza tra il campione di Roma e quello di Torino. Mentre si evidenzia invece che i giovani hanno generalmente minore conoscenza dell’autorità politica polacca.

Tutti gli intervistati dichiarano la conoscenza del nome del Presidente del paese e quasi tutti conoscono la composizione della coalizione al governo.

Per quanto concerne l’interesse dei Polacchi residenti in Italia verso le tematiche politiche riguardanti la Polonia, è difficile trovare un approccio comune, comunque l’interesse più scarso è stato dichiarato verso il governo locale, i diritti dei lavoratori e il sindacato. Più interessanti per i Polacchi sono i temi connessi alle relazioni Italia – Polonia e all’emigrazione.

Tutti gli intervistati hanno il diritto di voto alle elezioni e ne sono coscienti. Più della metà degli intervistati a Roma ha dichiarato di aver sempre partecipato alle elezioni e altre 5 persone hanno dichiarato la loro partecipazione saltuaria. A Torino solo 6 persone hanno dichiarato di aver sempre partecipato alle elezioni e 10 persone hanno ammesso la loro partecipazione occasionale. Comunque sia quasi tutti gli intervistati hanno dichiarato che la possibilità di partecipare alle elezioni è per loro importante. La differenza di comportamenti tra i 2 campioni può essere spiegata dal fatto che il voto alle elezioni polacche si può esercitare solo presso le rappresentanze delle autorità polacche a Roma, a Milano e, dalle ultime elezioni del 2007, a Catania. Tale circostanza fa sì che per i polacchi residenti a Torino la partecipazione alle elezioni comporti un viaggio a Milano. Le persone di Torino che hanno dichiarato la loro partecipazione al voto sottolineano che la loro partecipazione è possibile grazie all’attività dell’associazione dei polacchi a Torino, che organizza un viaggio comune con pullman per un importo esiguo. Alla luce di questi fatti sembra importante la proposta dell’introduzione del voto tramite internet.

Per quanto riguarda l’attività politica polacca, la maggioranza dei rispondenti dichiara di non aver partecipato in nessuna forma a tale attività da quando risiede in Italia. Una persona dichiara di aver intrapreso rapporti con un politico oppure un sindacalista e una ammette di aver scritto ai giornali (entrambe del campione romano). Undici persone invece dichiarano di aver firmato qualche petizione. Per quanto riguarda la frequenza alle attività connesse alla Polonia, nessuno ha scelto la risposta “ogni giorno”. Le risposte più frequenti sono “saltuariamente” e “solo per le elezioni”.

Una sola persona tra i rispondenti dichiara di non celebrare le festività polacche e una dichiara di averle celebrate solo in Polonia, tutti gli altri intervistati hanno dichiarato di aver sempre celebrate e di celebrarle anche in Italia. I polacchi dichiarano di celebrare queste festività in casa con la famiglia o amici. Nel “campione romano” quasi metà delle persone intervistate dichiarano di celebrare queste festività anche nelle comunità di preghiera o in chiesa. Tre quarti del campione torinese sceglie invece la risposta “riunione nella sede delle associazioni”. Questi comportamenti confermano quanto scritto prima: la comunità dei polacchi a Torino è tradizionalmente molto legata, dall’inizio della sua esistenza, all’associazione polacca a Torino, invece quella di Roma è tradizionalmente molto legata alla chiesa.

I polacchi si informano sulle vicende politiche in Polonia tramite diversi canali: tramite connazionali in Polonia e anche quelli in Italia, leggendo i giornali e via internet (piuttosto dalle pagine in lingua polacca). In misura eguale il campione afferma di informarsi su queste tematiche saltuariamente oppure spesso, nessuno dice di non informarsi mai e pochi di informarsi ogni giorno.

Per quanto riguarda invece la politica italiana, i polacchi dichiarano di orientarsi in essa abbastanza oppure poco. Una sola persona dichiara di non interessarsi politica per niente. Per quanto riguarda l’attiva partecipazione alla vita politica, gli intervistati ammettono di non praticarla: non c’è nessuno iscritto ai partiti italiani, due persone appartengono ai sindacati (entrambe di Roma). La propensione all’associazionismo è molto più visibile nella comunità di Torino, dove più di due terzi degli intervistati ha dichiarato la propria appartenenza all’associazione dei polacchi a Torino. A Roma solo 4 intervistati hanno dichiarato la loro appartenenza alle associazioni. Questi risultati testimoniano di nuovo il peso dell’associazione torinese nella vita dei polacchi in quella città e confermano il fatto che l’associazione sul territorio torinese funziona molto bene e riesce ad essere una forma attraente di partecipazione alla vita sociale e civile per i polacchi indipendentemente dalla loro età.

La conoscenza del nome del sindaco italiano è significativamente più diffusa tra i polacchi residenti a Roma che a Torino; mentre l’orientamento politico della coalizione al governo nella regione in entrambe le città risulta ancora meno chiaro. Gli intervistati dichiarano più conoscenza verso i rappresentanti della politica italiana a livello nazionale, quasi tutti dichiarano di conoscere il nome dell’attuale presidente del Consiglio ma meno l’orientamento e la composizione della coalizione governativa.

Per quanto riguarda la conoscenza degli attori della scena politica nazionale italiana, dal test, in cui gli intervistati devono collegare i nomi dei partiti con i loro leader e membri importanti, emerge, che tale conoscenza è limitata a pochi nomi: Silvio Berlusconi viene riconosciuto come il leader del Popolo della libertà, Walter Veltroni come leader del Partito Democratico e Umberto Bossi come leader della Lega. Alcuni intervistati conoscono anche l’appartenenza politica di Romano Prodi e di Gianfranco Fini.

Né la comunità di Torino né quella di Roma dichiarano interesse verso l’amministrazione regionale. Nemmeno il dibattito tra i partiti e le campagne elettorali godono dell’interesse dei rispondenti. I temi che invece suscitano interesse sono l’immigrazione (quote, assistenza, rimesse, pensioni, etc) e i diritti dei lavoratori, sindacati, politiche del lavoro. I polacchi non sono interessati agli argomenti connessi alle norme che regolano l’accesso alla cittadinanza italiana. La spiegazione per questo mancato interesse è ovviamente che da quando la Polonia è entrata nell’Unione Europea e, successivamente, l’Italia ha aperto il mercato del lavoro ai polacchi, il possesso della cittadinanza non cambia molto la loro condizione in Italia.

Interrogati riguardo al diritto di voto in Italia, molti degli intervistati hanno risposto che non hanno diritto al voto in nessun tipo di competizione elettorale. Questo vuol dire che sono male informati – avendo essi, in quanto cittadini comunitari, diritto di voto nelle elezioni europee e amministrative. Comunque gli intervistati non ritengono importante il possesso del diritto di voto nelle elezioni in Italia.

Per quanto riguarda le attività politiche in Italia, i polacchi intervistati generalmente non ne prendono parte - la maggior parte dichiara di non farlo mai, alcuni dichiarano la loro partecipazione saltuaria. La massima espressione della loro attività politica è la firma di petizioni.

Le persone intervistate dichiarano che la loro conoscenza della politica italiana avviene solitamente tramite televisione. Alcuni alla televisione aggiungono altre fonti: internet oppure i giornali italiani. Molti degli intervistati dichiarano di informarsi riguardo la politica italiana ogni giorno o comunque spesso. Non c’e una sola persona che dichiari di non informarsi sulla politica italiana; questa caratteristica può essere legata al tipo di lavoro effettuato dagli intervistati. Possiamo notare che le persone che dichiarano di informarsi sulla politica italiana ogni giorno tramite televisione, infatti, molto spesso svolgono lavori di cura presso le famiglie italiane. Evidentemente assistendo i cittadini italiani e vivendo la maggior parte del tempo con loro ne imitano le abitudini.

Generalmente i polacchi ritengono che la loro attività politica in Italia e in Polonia non comporti nessuna complicazione per la loro vita o per i rapporti tra i due paesi. Non credono neanche che le autorità polacche possano considerare scorretto o sconveniente lo svolgimento dell’attività politica in Italia e nemmeno che le autorità italiane possano considerare scorretto o sconveniente lo svolgimento di tale attività in Polonia.

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[1] Si veda a mo’ di esempio il sito dell’associazione Amici Romania Forum, nata nel gennaio 2007 per iniziativa di cittadini italiani e romeni, con l’intento di promuovere una maggiore integrazione tra i due popoli.

[2] L’espansione della civiltà Inca nella Valle di Cusco risalirebbe al 1250 circa, ma è solo dopo la prima metà del ‘400 che il Regno si espande a dismisura riuscendo a sottomettere numerose altre civiltà limitrofe. L’arrivo di Pizarro e dei conquistadores spagnoli risale al 1527 mentre la scomparsa definitiva del Tawantisuyu risale al 1572, quando l’ultimo imperatore Tupac Amaru fu decapitato.

[3] Inoltre, in occasione delle consultazioni del 2000 si è parlato ampiamente di possibili brogli elettorali che sarebbero stati concertati dal capo del SIN (Servizio di Intelligence Nazionale Peruviano), Vladimiro Montesinos, braccio destro del Presidente Fujimori, proprio attraverso la manipolazione del voto dall’estero (Berg-Tamagno, 2006, p. 261)

[4] La società peruviana è costituita da amerindi o nativi 45%, mestizos (nati dall’unione tra spagnoli e nativi) 37%, Europei 15%, Afro-Peruviani 2%, Asiatici 1%.

[5] È interessante vedere che tra le mete di destinazione dei peruviani risaltano proprio quei paesi da dove, decenni prima, erano emigrate migliaia di persone in Perú, confermando sostanzialmente un legame già esistente tra il paese andino e le altre destinazioni europee, americane o asiatiche. Sulla relazione tra immigrazione ed emigrazione in Perú: Ulla D. Berg e Karsten Pærregaard, El 5to Suyo, Introducción, IEP, 2005, Lima, p. 12.

[6] Le stime del DIGEMIN sull’entità del flusso migratorio sono basate sul numero di cittadini peruviani che si sono presentati presso un posto di frontiera lasciando il paese e che non hanno più fatto ritorno.

[7] Fonte: Perú: estadisticas de la migración internacional de peruanos 1990-2007, Organización Internacional para las Migraciones, Lima, 2008, p. 21, tab. n.1. Le stime sono ricavate dai dati forniti dal DIGEMIN sulle uscite e sugli ingressi nel paese.

[8] Fonte: INEI

[9] Fonte: ibidem, p. 20.

[10] Fonte: Observatorio Socio Laboral Lima Norte, El comportamiento de las remesas internacionales: el caso de Lima Metropolitana 2002-2006, Universidad Sedes Sapientiae, Lima, 2008, p. 29.

[11] Vale la pena ricordare che il Presidente Toledo scelse addirittura di celebrare la sua cerimonia di investitura tra le spettacolari rovine Inca di Machu Picchu. Berg e Tamagno forniscono un’ interpretazione interessante della retorica sul “Quinto Suyo”, affermando come l’origine indigena-mestiza del Presidente Toledo e la necessità di essere riconosciuto dall’élite bianca di Lima, da sempre al potere in Perú, abbia giocato un ruolo fondamentale nel suo discorso politico anche in tema migratorio, confermando sostanzialmente la rigida impostazione classista e razzista della classe politica peruviana. (Berg e Tamagno 2006, p. 263).

[12] Decreto Presidenziale n.051-2001-RE, Ministero degli Affari Esteri.

[13] L’organizzazione e le funzioni dei Consejos de Consulta sono regolate dalla Risoluzione Ministeriale n.1197/RE dell’8 novembre 2002 e dalle modifiche introdotte con la Risoluzione Ministeriale .0687/RE del 21 luglio 2004. Sono state inoltre apportate ulteriori modifiche nel mese di dicembre 2008 per le quali si rimanda al testo.

[14] Legge n. 28182/2005 e relativo regolamento d’attuazione D.S. 028-2005-EF, 1 marzo 2005.

[15] Intervista al Consigliere José Mariano De Cossio Rivas, Direttore della Protezione delle Collettività Nazionali, Ministero degli Esteri, Lima, personalmente raccolta il 24 luglio 2008.

[16] Fonte: Ministerio de Relaciones Exteriores;

[17] É il caso ad esempio dei Consoli di Roma e Barcellona secondo quanto affermato da Jorge Varas, ex membro del Consejo de Consulta di Barcellona in un’intervista rilasciata il 22 dicembre del 2008 e apparsa sul sito web dei Consejos de Consulta peruviani, , nel gennaio 2009.

[18] Sul punto si rimanda alle riflessioni riportate nell’Introduzione al testo.

[19] Progetti di legge n. 579/2006-PE, 611/2006-PE e 576/2006-PE.

[20] Evidentemente il numero di peruviani che lasciano illegalmente il paese, poiché sprovvisti ad esempio di un visto turistico, non rientra mai nelle stime ufficiali fornite dalla DIGEMIN.

[21] Intervista al Consigliere José Mariano De Cossio Rivas, Direttore di Protezione delle Collettività Nazionali, Ministero degli Esteri, Lima, personalmente raccolta il 24 luglio 2008.

[22] Il Jurado, infatti, ha condotto diverse simulazioni e studi di fattibilità circa la proposta di introdurre una rappresentanza parlamentare ad hoc per i peruviani nel mondo. Sono state promosse alcune giornate di studio sul tema e funzionari del Jurado hanno partecipato, in maniera continuativa, agli incontri politici che avevano l’obiettivo di strutturare la proposta di legge.

[23] Sul tema si è svolta un’importante Conferenza Internazionale a Lima il 19,20 e 21 febbraio 2008 dal titolo Migrazioni e co-sviluppo, organizzata dal CIAM (Centro de Información y Asesoramiento al Migrante) e alla quale hanno preso parte esponenti politici e di Governo, esponenti del mondo accademico e rappresentanti di associazioni e organi della comunità peruviana nel mondo. Cfr. Conferencia Internacional Migraciones y Desarrollo, en pos de buenas practicas, CIAM, 2008.

[24] Decreto Supremo Nº 060-2006-RE.

[25] Marco Caselli, autore di una ricerca sull’immigrazione peruviana a Milano promossa dall’ISMU, stima in circa 96.000 il totale di peruviani presenti in Italia nel 2007. La stessa Fondazione ISMU aveva stimato che nel 2005 erano presenti in Italia circa 78.300 peruviani di cui il 76,4% residenti regolari, il 7,8% immigrati regolari non residenti e il restante 15,8% da irregolari. (Caselli, 2009 p.35; Blangiardo e Menonna, 2008, p.97)

[26] Tali stime sono elaborate dal Ministerio de Relaciones Exteriores peruviano a partire dal numero di pratiche espletate in un anno dai Consolati peruviani nel mondo. Nell’anno 2004, considerando la classifica delle quindici circoscrizioni consolari più grandi nel mondo, Milano occupava il quinto posto, Roma il tredicesimo. Si tratta evidentemente di stime particolarmente suscettibili di altre influenze come la maggiore o minore attività consolare e pertanto scarsamente utili nel definire la reale presenza di peruviani nel nostro paese.

[27] Fonte: Perú: estadisticas de la migración internacional de peruanos 1990-2007, Organización Internacional para las Migraciones, Lima, 2008, p. 26.

[28] Ibidem, p. 55.

[29] I totali residenti si riferiscono al numero registrato al 31/12 dell’anno indicato (Fonte:ISTAT).

[30] I totali residenti si riferiscono al numero registrato al 31/12 dell’anno indicato (Fonte: ISTAT).

[31] Intervista al Presidente in carica del Consejo de Consulta de Peruanos nella circoscrizione consolare del Piemonte-Valle d’Aosta, Pilar Yenque, personalmente raccolta il 15 novembre 2008.

[32] Fonte: Ambasciata del Perú in Italia.

[33] Fonte: Ambasciata del Perú in Italia.

[34] Riportiamo uno stralcio significativo di intervista con un esponente sindacale raccolta a Lima nel mese di agosto del 2008: “ la maggior parte di quelli che se ne vanno in Italia o i Spagna sono donne..ma lo sa perché? Perché lì c’è una grande richiesta di infermiere..pare che in Italia nessuno voglia fare l’infermiera, forse perché vengono pagate poco E ovviamente sono le donne a fare maggiormente questo lavoro..gli uomini peruviani preferiscono lavorare all’estero come operai, ma le donne fanno le infermiere […]..sono in minoranza quelle che fanno le badanti agli anziani perché le donne peruviane sono più specializzate. Quei lavori in genere li lasciano ad altre immigrante..dell’est Europa presumo.”

[35] Secondo i dati raccolti da CGIL, CISL e UIL sarebbero circa 800.000 gli stranieri residenti in Italia iscritti ad un sindacato. In particolare nel 2007 vi è stato un aumento di 107.308 iscritti e la CISL mantiene, in valore assoluto, il primato di immigrati iscritti con 293.114 unità, contro i 271.238 della CGIL e i 170.239 della UIL. Fonte: CGIL, CISL e UIL.

[36] Fonte: Comune di Torino, Assessorato al Coordinamento delle Politiche per l’Integrazione.

[37] È da segnalare, ad esempio, che il dialogo tra associazionismo peruviano e Comune di Torino ha portato, nel corso del 2007, a regolamentare la presenza dei peruviani nel parco urbano della Pellerina, risolvendo alcuni importanti problemi di infrastrutture, igiene e sicurezza. Frutto della stessa collaborazione, e di questo dialogo istituzionalizzato tra immigrati e amministrazione locale, è stata la concessione della centrale Piazza Castello per le celebrazioni della festa nazionale peruviana (Fiestas Patrias) lo scorso 28 luglio 2008, che ha visto un’ampia partecipazione cittadina e una forte sponsorizzazione dell’amministrazione cittadina.

[38] In realtà sull’uso del termine “rivoluzione” per identificare i fatti del dicembre 1989 in Romania si è aperto fin dagli anni Novanta un vasto dibattito storiografico e politologico; molti sostengono infatti che non si sia trattato di una rivoluzione, quanto piuttosto di un colpo di Stato operato da seconde file del partito, altri ritengono invece che i moti che da Timi_[pic]oara si estesero al resto della Romania siano scoppiati in maniera indipendente ma che successivamente siano stati cavalcati da alcuni settori del to da seconde file del partito, altri ritengono invece che i moti che da Timişoara si estesero al resto della Romania siano scoppiati in maniera indipendente ma che successivamente siano stati “cavalcati” da alcuni settori del Partito Comunista Romeno; in merito ci si limita a segnalare Mazilu, D., Revoluţia furată (La rivoluzione rubata), Ed. Cozia, Bucureşti 1991; Frunză, V., Revoluţia împuşcată sau PCR după 22 decembrie 1989 (La rivoluzione fucilata ovvero il PCR dopo il 22 dicembre 1989), Ed. Victor Frunză, Bucureşti 1994; Săndulescu, Ş., Decembrie ’89. Lovitura de stat a confiscat revoluţie română (Dicembre ’89. Il colpo di stato ha confiscato la rivoluzione romena), Omega, Bucureşti 1996; Radoş, A., Complotul securităţii. Revoluţia trădată din România (Il complotto della Securitate. La rivoluzione tradita di Romania), Saeculum, Bucureşti 1999; Stoenescu, A. M., Istoria loviturilor de stat în România, vol. IV, Revoluţia din decembrie 1989 – o tragedie românească (Storia dei colpi di stato in Romania, vol. IV, La rivoluzione del dicembre 1989 – una tragedia romena), 2 tomi, RAO, Bucureşti 2004-2005; Tismăneanu, V., Stalinismul pentru eternitate. O istorie politică a comunismului românesc (Stalinismo per l’eternità. Una storia politica del comunismo romeno), Polirom, Iaşi 2005. Per uno sguardo d’insieme sul caso romeno cfr. Biagini, A., Storia della Romania contemporanea, Bompiani, Milano 2004; sul concetto di rivoluzione in generale, cfr. Tilly, C., Le rivoluzioni europee 1492-1992, Laterza, Roma/Bari 1999. Al di là del merito e della legittimità delle diverse tesi, se si esce dall’aspetto propriamente politico del 1989 romeno e della cosiddetta “transizione” degli anni Novanta – altro concetto peraltro assai dibattuto – per volgere l’attenzione a un piano più generale, si può constatare effettivamente che, seppure con molte imperfezioni, i cambiamenti che hanno avuto luogo sono stati effettivamente rivoluzionari.

[39] Ciò è confermato in via indiretta dall’assenza di un qualsiasi articolo della Costituzione socialista inerente il diritto alla libera circolazione dei cittadini. Il testo della Costituzione socialista romena del 1965 è disponibile all’indirizzo internet: (ultimo accesso 04/10/2008).

[40] Sandu, D. (a cura di), Locuirea temporară în străinătate. Migraţia economică a românilor: 1990-2006 (Vivere temporaneamente all’estero. La migrazione economica dei romeni: 1990-2006), Fundaţia pentru o Societate Deschisă, Bucureşti 2006, p. 17. Per contatti con l’estero il curatore del volume intende qualsiasi forma di scambio con paesi terzi, dalla residenza oltre frontiera più o meno lunga per motivi, al semplice viaggio per motivi turistici, allo scambio transfrontaliero.

[41] Sul fenomeno in genere cfr. Diminescu, D., Visibles mais peu nombreux. Les circulations migratoires roumaines après 1989, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris 2003.

[42] Spesso infatti i paesi del socialismo reale sono stati equiparati a carceri su scala geografica; ciò spiega anche la diffusione, nella mentalità collettiva romena, del concetto di “lager socialista”, divenuto quasi sinonimo di regime comunista. Uno dei casi più famosi, ma senz’altro non l’unico, di “evasione” dalla Romania ceauşista è quello della ginnasta Nadia Comaneci, riparata negli Stati Uniti durante una competizione internazionale.

[43] Per esempio nel solo anno 1992 Istanbul è “visitata” da un milione di “turisti” romeni che mettono in piedi un sistema di micro-commercio internazionale. Gli effetti – come abbiamo modo di constatare – sono ancora visibili in Turchia, dove non è infrequente imbattersi in commercianti che hanno conoscenze di base della lingua romena. In merito cfr. Selinvanova, I., Turkey and Cooperation with the Black Sea Countries: The Beginning of the Path, in “Foreign Trade”, 9, 1994.

[44] Cfr. Andreescu, V. – Alexandru, V., Transnational Labor Mobility of Romanians: Empirical Findings on Recent Migratory Trends, in “Journal of Identity and Migration Studies”, vol. 1, n. 2, 2007, pp. 3-20.

[45] Cfr. Biagini, A., op. cit., pp. 115-117; benché iniziato già dal 1950, tale flusso venne istituzionalizzato nel 1967 in seguito a due accordi di collaborazione che il regime di Bucarest siglò con i governi tedesco e israeliano. Le somme previste per gli emigranti – spesso costretti – di etnia tedesca erano comprese tra i 2.000 e i 50.000 dollari, in funzione del grado di preparazione tecnica e di istruzione del singolo, mentre nel caso di ebrei le “compensazioni” pagate dal governo di Tel Aviv giunsero fino alla cifra di 250.000 dollari; in merito cfr. Popa, C., “Regimul comunist din România (1948-1989)” (“Il regime comunista di Romania, 1948-1989”), in Pop, I.-A. – Bolovan, I. (a cura di), Istoria României (Storia della Romania), Institutul Cultural Român, Cluj-Napoca 2004, p. 656.

[46] Le autorità comuniste romene adottano, nel corso del quarantennio in cui reggono le sorti del Paese, una politica di assimilazione delle minoranze nazionali mediante una serie di politiche che tendono a rendere più difficile il mantenimento delle tradizioni culturali del gruppo di appartenenza. Nel caso specifico dei rom, accanto a tale politica se ne affianca però un’altra, paradossalmente contraria, di assoluto rigetto; i rom vengono dunque concentrati in maniera coatta presso determinate aree appositamente identificate, dove è consentito loro di mantenere le proprie tradizioni e il proprio stile di vita a condizione di non mescolarsi con gli altri gruppi. In merito cfr. Achim, V., Ţiganii în istorie României (Gli zingari nella storia della Romania), Bucureşti 1998; Pistecchia, A., „Il cibo e il corpo nella cultura rom”, in Motta, G. (a cura di), Cultura alimentare, storia e società, Periferia, Roma 2008, pp. 211-223.

[47] In tal senso va notato che la classe politica post-rivoluzionaria, composta in gran parte da membri di second’ordine del PCR o comunque appartenenti alle organizzazioni collaterali di questo – Unione delle donne, sindacati, Unione dei giovani comunisti ecc. – non fa nulla per tentare di diffondere un sentimento di effettivo cambiamento. Al contrario, già dal gennaio 1990 e fino al settembre 1991 Ion Iliescu, leader indiscusso del Fronte di Salvezza Nazionale e già membro di rilievo del PCR, ricorre a più riprese ai minatori della Valle del Jiu – che avevano costituito una sorta di force de frappe del passato regime contro eventuali opposizioni organizzate – per soffocare le proteste che intanto cominciano a diffondersi nelle strade della capitale; tale fenomeno è noto con il nome di “mineriadi”; in merito cfr. Biagini, A., op. cit., pp. 138-143.

[48] Nel caso dell’emigrazione verso Israele, essa è determinata in quegli anni anche da un’elevata domanda di manodopera proveniente da quel Paese a seguito delle restrizioni imposte all’ingresso di lavoratori palestinesi per motivi di sicurezza nazionale. Tali restrizioni rendono vacanti molti posti di lavoro, che vengono occupati in gran parte da lavoratori provenienti dalla Romania e dalla Thailandia; cfr. Andreescu, V. – Alexandru, V., op. cit., p. 7.

[49] Durante l’Ottocento e fino a tutto il periodo tra le due guerre, l’élite culturale e politica romena si forma a Parigi e presso le altre università francesi. Successivamente, molti intellettuali romeni, come Eugène Ionesco (in realtà Eugen Ionescu) e Mircea Eliade, soltanto per fare alcuni esempi, trovano riparo proprio in Francia. Anche il regime comunista di Ceauşescu avvia una collaborazione economica con la Francia, che si sviluppa a seguito della visita del generale de Gaulle a Bucarest nel maggio 1968 e che è particolarmente attiva nel settore della produzione automobilistica, con Renault e Citroen in prima fila.

[50] Per regioni storiche si intendono quelle aree che, storicamente, vengono considerate come facenti parte delle cosiddette Terre romene. In una visione minimale, esse sono: Transilvania, Banato, Oltenia, Muntenia, Moldavia, Dobrugia, Bucovina, Bessarabia. Attualmente, da un punto strettamente formale, lo Stato romeno non risulta diviso in regioni, bensì in 41 distretti (judeţe), simili alle province italiane, cui si aggiunge come distretto a parte la capitale Bucarest.

[51] Cfr. Sandu, D. et altri, A Country Report on Romania Migration Abroad: Stock and Flows after 1989, Multiculturale Centre, Prague 2004.

[52] Cfr. Romanian Statistical Yearbook 2006, Institutul Naţional de Statistică, Bucureşti 2007, tabella 2.30, p. 81, disponibile all’indirizzo internet (ultimo accesso 9 gennaio 2009).

[53] Cfr. Ricci, A., “Immigrati romeni in Italia: l’immagine dei romeni dopo l’ingresso nella Ue tra percezione e realtà”, in Altarozzi, G. – Mândrescu, G. – Pommier Vincelli, D., L’immagine riflessa. Romeni in Italia e italiani in Romania (Atti del convegno italo-romeno di Foligno, 22-25 febbraio 2007), Edizioni Nuova Cultura, Roma 2008, pp. 181-199; Istituto Nazionale di Statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2007, pp. 5-7, disponibile all’indirizzo internet (ultimo accesso 8 ottobre 2008).

[54] In merito all’appartenenza etnica va ricordato come le autorità romene presuppongano la nazionalità romena per tutti i cittadini, fatto salvo il diritto dei singoli di proclamare espressamente la loro appartenenza a un gruppo nazionale minoritario. L’appartenenza a una minoranza etnica dà una serie di diritti sociali e politici, come per esempio quello di inviare propri rappresentanti in Parlamento, dove ai deputati eletti si aggiungono i rappresentanti delle minoranze nazionali (tra cui anche un italiano, rappresentante della minoranza storica) o, uno dei diritti tra i più visibili ma al tempo stesso importante per il mantenimento e la proclamazione dell’identità nazionale di un determinato luogo, il diritto della multipla denominazione per quelle zone dove le minoranze superano il 20% della popolazione (per esempio Târgu Mureş diviene in ungherese Marosvásárhely, oppure Reghin, città dove esistono tre gruppi quasi equivalenti per consistenza numerica, romeno, ungherese e sassone, diventa Szászrégen in ungherese e Sächsisch Regen in tedesco.)

[55] Cfr. Constituţia României republicată (M. Of. nr. 767 din 31 octombrie 2003) (Costituzione della Romania ripubblicata), Ed. All Beck, Bucureşti 2004.

[56] Monitorul Oficial (MO), nr. 1127 del 14 dicembre 2005, Decizia Curţii Constituţionale nr. 631 din 24 noiembrie 2005.

[57] Sull’idea di circolarità delle migrazioni per motivi di lavoro cfr. Sandu, D., Migraţia transnaţională a românilor din perspectiva unui recensământ comunitar (La migrazione transnazionale dei romeni nella prospettiva di un censimento comunitario), in “Sociologia Românească”, 3/4, 2000. Per una visione d’insieme sulla legislazione e le politiche governative in merito alle migrazioni dalla Romania per motivi di lavoro cfr. Şerban, M. – Stoica, M., Politici şi instituţii în migraţia internaţională: migraţie pentru muncă din România. 1990-2006 (Politiche e istituzioni nella migrazione internazionale: le migrazioni per lavoro dalla Romania. 1990-2006), Fundaţia pentru o Societate Deschisă, Bucureşti 2007.

[58] MO, nr. 6 del 10 gennaio 1990, Decret-Lege nr. 10 din 8 ianuarie 1990 privind regimul paşapoartelor şi al călătoriilor în străinătate.

[59] Ibidem.

[60] Ibidem.

[61] Ibidem, n. 245 del agosto 1994, Ordonanţa Guvernului nr. 37/1994 privind unele măsuri în legătură cu eliberarea şi păstrarea paşapoartelor; l’ordinanza è successivamente ratificata con legge nr. 144/1994, pubblicata in Ibidem, Parte I, n. 374 del 31 dicembre 1994.

[62] Ibidem, n. 226 del 30 agosto 1997, Ordonanţa Guvernului nr. 65 din 28 august 1997 privind regimul paşapoartelor în România; successivamente approvata mediante legge n. 216 del 17 novembre 1998 pubblicata in Ibidem, n. 446 del 23 novembre 1998.

[63] Ibidem, n. 446 del 23 novembre 1998, Lege nr. 216 din 17 noiembrie 1998 pentru aprobarea Ordonanţei Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.

[64] MO, nr. 338 del 26 giugno 2001, Ordonanţă de Urgenţă nr. 86 din 14 iunie 2001 pentru modificarea art. 14 alin. (1) lit. e) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.

[65] Ibidem, nr. 549 del 3 settembre 2001, Ordonanţă de Urgenţă nr. 112 din 30 august 2001 privind sancţionarea unor fapte săvârşite în afara teritoriului ţării de cetăţeni români sau de persoane fără cetăţenie domiciliate în România. L’atto d’urgenza è poi stato approvato con alcune modifiche mediante la Legge 252 del 29 aprile 2002.

[66] Ibidem, nr. 727 del 4 ottobre 2002, Ordonanţă de Urgenţă nr. 119 din 25 septembrie 2002 pentru modificarea art. 14 alin. (1) lit. e) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România; ibidem, nr. 267 del 17 aprile 2003, Lege nr. 134 din 11 aprilie 2003 pentru modificarea art. 19 din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România şi a art. 39 din Legea nr. 105/1996 privind evidenţa populaţiei şi cartea de identitate.

[67] Ibidem, nr. 622 del 30 agosto 2003, Ordonanţă nr. 84 din 28 august 2003 pentru modificarea şi completarea Ordonanţei Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România. La citazione, in traduzione nostra, ă tratta dall’art. 1, comma 6.

[68] Sui negoziati che porteranno la Romania nell’UE cfr. Puşcaş, V., Negociind cu Uniunea Europeană (Negoziando con l’Unione Europea), 5 voll., Ed. Economică, Bucureşti 2003-2005.

[69] MO, nr. 647 del 21 luglio 2005, Ordonanţă nr. 28 din 14 iulie 2005 pentru modificarea şi completarea unor acte normative; ibidem, nr. 699 del 3 agosto 2005, Ordonanţă nr. 43 din 28 iulie 2005 pentru modificarea art. 22 lit. a) din Ordonanţa de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state şi a art. 12 alin. (1) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.

[70] Ibidem, nr. 682 del 29 luglio 2005, Legea nr. 248 din 20 iulie 2005 privind regimul liberei circulaţiei a cetăţenilor români în străinătate.

[71] Vale forse la pena notare come, benché la Romania sia ormai un paese pienamente democratico, l’influenza del passato regime si faccia ancora sentire anche a livello di poteri dello Stato; nel caso specifico, ciò risulta evidente dalla previsione legislativa secondo cui le autorità non possano vietare per alcun motivo il rientro di un cittadino in patria, pratica invece comune nei paesi dittatoriali nei confronti di espatriati identificati con l’opposizione al regime.

[72] Il titolo di viaggio può essere richiesto soltanto da cittadini romeni che si trovino all’estero privi di un passaporto valido e che siano impossibilitati a richiedere un passaporto semplice. Quest’ultimo, infatti, può essere richiesto soltanto in Romania, presso le sezioni predisposte nel distretto di residenza, o nelle rappresentanze diplomatiche per i romeni che abbiano stabilito la loro residenza all’estero. Il problema si pone, in prevalenza, per quei migranti che si sono stabiliti all’estero in maniera irregolare senza richiedere un passaporto prima della partenza o che siano in possesso di un documento scaduto, i quali si trovano all’estero ma non possono richiedere regolare passaporto presso ambasciate o consolati romeni perché non residenti all’estero.

[73] MO, nr. 682 del 29 luglio 2005, Legea nr. 248 din 20 iulie 2005 privind regimul liberei circulaţiei a cetăţenilor români în străinătate.

[74] Ibidem, nr. 71 del 26 gennaio 2006, Ordonanţă nr. 5 din 19 ianuarie 2006 pentru modificarea şi completarea Legii nr. 248/2005 privind regimul liberei circulaţiei a cetăţenilor români în străinătate.

[75] Ibidem, nr. 76 del 27 gennaio 2006, Hotărâre nr. 94 din 26 ianuarie 2006 pentru aprobarea Normelor metodologice de aplicare a Legii nr. 248/2005 privind regimul liberei circulaţii a cetăţenilor români în străinătate.

[76] Ibidem, nr. 725 del 14 novembre 2001, Ordonanţă de Urgenţă nr. 144 din 25 octombrie 2001 privind îndeplinirea de către cetăţeni români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state.

[77] Ibidem, art. 1, lett. c.

[78] Cfr. Ordinul ministrului de Interne nr. 177 din 22 noiembrie 2001 pentru stabilirea cuantumului sumei minime in valuta liber convertibila pe care cetatenii romani trebuie sa o detina la iesirea din tara, cand calatoresc in scopuri particolare in statele membre ale Uniunii Europene sau in alte state; il testo integrale è disponibile all’indirizzo (ultimo accesso 14 ottobre 2008).

[79] Ibidem, art. 1, comma 3.

[80] Ibidem, art. 2.

[81] Cfr. MO, nr. 258 del 17 aprile 2002, Lege 177 din 11 aprilie 2002 pentru aprobarea Ordonanţei de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state.

[82] Ibidem, punto 2.

[83] Ibidem, nr. 647 del 21 luglio 2005, Ordonanţă nr. 28 din 14 iulie 2005 pentru modificarea şi completarea unor acte normative.

[84] Ibidem, nr. 682 del 29 luglio 2005, Lege nr. 248 din 20 iulie 2005 privind regimul liberei circulaţii a cetăţeniilor români în străinătate, in particolare art. 54; il testo della legge è consultabile anche all’indirizzo internet (ultimo accesso 14 ottobre 2008).

[85] MO, nr. 699 del 3 agosto 2005, Ordonanţă nr. 43 din 28 iulie 2005 pentru modificarea art. 22 lit. a) din Ordonanţa de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state şi a art. 12 alin. (1) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.

[86] Ibidem, nr. 230 del 14 marzo 2006, Lege nr. 50 din 8 martie 2006 privind aprobarea Ordonanţei Guvernului nr. 28/2005 pentru modificarea şi completarea unor acte normative.

[87] Ibidem, nr, 337 del 14 aprile 2006, Ordonanţă de urgenţă nr. 29 din 12 aprilie 2006 pentru modificarea art. 1din Ordonanţa de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state.

[88] Ibidem, preambolo.

[89] Cfr. Diminescu, D., Visibles mais peu nombreux… les circulations migratoires roumaines après 1989, Fondation Maison des Sciences de l’Homme, Paris 2003.

[90] Cfr. MO, nr. 210 del 5 settembre 1996, Ordin nr. 311 din 7 august 1996.

[91] Ibidem, nr. 243 del 4 ottobre 1996, Ordin nr. 439 din 30 octombrie 1996 privind înfiinţarea Comisiei Speciale pentru punerea în aplicare a Ordinului ministrului de stat, ministrul muncii şi protecţiei sociale, nr. 311/1996.

[92] MO, nr. 364 del 4 agosto 2000, Lege 156 din 26 iulie 2000 privind protecţia cetăţenilor români care lucrează în străinătate.

[93] Ibidem, cap. 2, artt. 5-15.

[94] Ibidem, nr. 208 del 28 aprile 2008, Hotărâre nr. 384 din 11 aprilie 2001 pentru aprobarea Normelor metodologice de aplicare a prevederilor Legii nr. 156/2000 privind protecţia cetăţenilor români care lucrează în străinătate.

[95] Ibidem, nr. 19 del 15 gennaio 2002, Hotărâre Guvernului nr. 1320/2001 privind înfiinţarea şi organizarea Oficiului Naţional pentru Recrutare şi Plasare a Forţei de Muncă în străinătate.

[96] Cfr. Andreescu, D. N. – Teodorescu, A., op. cit., pp. 37-58; Lăzăroiu, S., “More ‘Out’ than ‘In’ at the Crossroads between Europe and the Balkans”, in Migration Trends in Selected Applicant Countries, vol. IV – Romania, IOM, Vienna 2004.

[97] Cfr. MO, nr. 578 del 5 agosto 2002, Ordonanţă nr. 43 din 25 iulie 2002 pentru modificarea Legii 156/2000 privind protecţia cetăţenilor români care lucrează în străinătate.

[98] Ibidem, nr. 606 del 15 agosto 2002, Hotărâre nr. 823 din 31 iulie 2002 pentru modificarea şi completarea Hotărârii Guvernului nr. 1.320/2001 privind înfiinţarea şi organizarea Oficiului Naţional pentru Recrutare şi Plasare a Forţei de Muncă în Străinătate.

[99] Ibidem, nr. 792 del 27 agosto 2004, Hotărâre nr. 1326 din 19 august 2004 pentru modificarea şi completarea Hotătârii Guvernului nr. 737/2003 privind organizarea şi funcţionarea Ministerului Muncii, Solidărităţii şi Familiei.

[100] Ibidem, nr. 427 del 20 maggio 2005, Hotărâre nr. 412 din 5 mai 2005 privind organizarea şi funcţionarea Ministerului Muncii, Solidarităţii Sociale şi Familiei.

[101] Sull’emigrazione romena verso l’Italia esiste una vasta letteratura; ci si limita qui a ricordare Sandu, D., Locuirea temporară în străinătate…, op. cit.; Cingolani, P. – Piperno, F., “Il prossimo anno a casa”: radicamento, rientro e percorsi traslocali. Il caso delle reti migratorie Marginea-Torino e Focşani-Roma, CeSPI – Fieri, Roma 2005; Pittau; F. – Ricci, A. – Silj, A. (a cura di), Romania. Immigrazione e lavoro in Italia. Statistiche, problemi e prospettive, Idos, Roma 2008; Schmidt, D., La presenza romena a Padova: quotidianità, lavoro, reti amicali e centri di aggregazione, in “Societatea Reală”, special issue “Traiectorii migratorie între România şi Italia” (“Traiettorie migratorie tra la Romania e l’Italia”), n. 4, 2006, pp. 79-99; Perrotta, D., “Il lavoro dei rumeni in edilizia. Appunti da un’indagine in territorio bolognese”, in Megale, A. – Bernardotti, M. A. – Mottura, G. (a cura di), Immigrazione e sindacato. Stesse opportunità, stessi diritti. IV rapporto Ires, Ediesse, Roma 2006, pp. 245-272.

[102] Cfr. MO, nr. 375 del 2 maggio 2006, Lege nr. 98 din 25 aprilie 2006 pentru ratificarea Acordului dintre Guvernul României şi Guvernul Republicii Italiene privind reglementarea şi gestionarea fluxurilor migratorii în scop lucrativ, semnat la Roma la 12 octombrie 2005. Il testo bilingue dell’accordo è disponibile all’indirizzo internet (ultimo accesso 4 novembre 2008).

[103] Una trattazione di sintesi degli accordi bilaterali siglati dalle autorità di Bucarest in Şerban, M. – Stoica, M., op. cit., pp. 35-39.

[104] Cfr. Carteny, A., I partiti politici in Romania (1989-2004), Periferia, Cosenza 2007; Id., Da Budapest a Bucarest. Saggi di storia e cultura, Periferia, Cosenza 2007.

[105] In generale cfr. Østergaard-Nielsen, E., “Turkey and the «Euro Turks». Overseas Nationals as an ambiguous asset”, in Ead. (ed. by), International Migration and Sending Countries. Perceptions, Policies and International Relations, New York, Palgrave MacMillan, 2003, p. 96.

[106] Cfr. MO, nr. 44 del 6 marzo 1991, Legea nr. 21 din 1 martie 1991 cetăţeniei române. Una trattazione generale sul tema della cittadinanza e dell’identità nazionale in Romania in Iordachi, C., Citizenship and National Identity in Romania: a Historical Overview, in “REGIO – Minorities, Politics, Society”, nr. 1/2002, pp. 3-34; sulla realtà degli oppositori al regime comunista all’estero, cfr. Tismăneanu, V. – Dobrincu, D. – Vasile, C., Raport final. Comisia prezidenţială pentru analiza dictaturii comuniste din România (Rapporto finale. La commissione presidenziale per l’analisi della dittatura comunista in Romania), Humanitas, Bucureşti 2007, cap. 3.

[107] Cfr. Carteny, A., I partiti politici…, op. cit., pp. 45-54 e 91-101.

[108] Cfr. MO, nr. 184 del 15 agosto 1995, Hotărâre nr. 581 din 4 august 1995 privind organizarea şi funcţionarea Consiliului pentru Problemele Românilor de Pretutindeni.

[109] Cfr. MO, nr. 265 del 16 luglio 1998, Lege nr. 150 din 15 iulie 1998 privind acordarea de sprijin comunităţilor româneşti de pretutindeni.

[110] Cfr. Bleahu, A., Romanian migration to Spain. Motivation, networks and strategies, p. 33, disponibile on-line all’indirizzo internet (ultimo accesso 11 novembre 2008).

[111] Cfr. Trandafoiu, R., The Geopolitics of Work Migrants: The Romanian Diaspora, Legal Rights and Symbolic Geographies, in “REGIO – Minorities, Politics, Society”, n. 1/2006, pp. 130-149.

[112] Cfr. MO, nr. 792 del 21 novembre 2007, Lege nr. 299 din 13 noiembrie 2007 privind sprijinul acordat românilor de pretutindeni. Il testo integrale è disponibile all’indirizzo (ultimo accesso 12 novembre 2008).

[113] Dibattiti disponibili all’indirizzo internet (ultimo accesso 13 novembre 2008).

[114] Cfr. MO, nr. 196 del 13 marzo 2008, Lege nr. 35 din 13 martie 2008 pentru alegerea Camerei Deputăţilor şi a Senatului şi pentru modificarea şi completarea Legii nr. 67/2004 pentru alegerea autorităţilor administraţiei publice locale, a Legii administraţiei publice locale nr. 215/2001 şi a Legii nr. 393/2004 privind Statutul aleşilor locali. Il testo integrale della legge è disponibile all’indirizzo (ultimo accesso 23 gennaio 2009).

[115] Sugli effetti dei sistemi elettorali cfr. Sartori, G., Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna 2005; Id., Parties and Party Systems: A Framework for Analysis, ECPR Press, Colchester 2005.

[116] (ultimo accesso 13 novembre 2008).

[117] Ibidem.

[118] Ibidem.

[119] Su tale aspetto cfr. Sandu, D. Locuirea temporară în străinătate…, op. cit., p. 150 sgg. Tale orientamento è emerso anche dai nostri dialoghi con il professor Gheorghe Mândrescu, direttore dell’Istituto Italo-Romeno di Studi Storici ed ex direttore ad interim dell’Accademia di Romania in Roma.

[120] Secondo la nuova legge elettorale, infatti, hanno diritto di voto i cittadini romeni che abbiano stabilito la loro residenza all’estero o che siano domiciliati oltre frontiera e siano in possesso di un atto legale, rilasciato dalle autorità del paese ospite, che testimoni l’effettivo domicilio all’estero. In tal modo diviene evidentemente assai difficile stabilire con precisione il numero degli aventi diritto.

[121] Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2008, Istat, Roma 2009, p. 1 e 4.

[122] Sulla delocalizzazione di imprese italiane in Romania cfr. Lenzi, F. R., La presenza italiana in Romania. Delocalizzazione, internazionalizzazione e problemi etico-normativi alle soglie dell’ingresso nell’UE, in “Annuario dell’Istituto Italo-Romeno di Studi Storici”, III (2006), pp. 271-286; Tempestini, P. – Mucci, F., “Flussi finanziari e internazionalizzazione delle imprese italiane in Romania”, in Pittau, F. – Ricci, A. – Silj, A. (a cura di), op. cit., pp. 71-80.

[123] Cfr. Carfagna, M. – Pittau, F., Italia: venti anni di regolarizzazioni, in Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2003, Nuova Anterem, Roma 2003, pp. 129-138.

[124] Cfr. Gabrielli, D. (a cura di), La presenza straniera in Italia: caratteristiche socio-demografiche. I cittadini stranieri dopo la regolarizzazione, Istat, Roma 2007, p. 47; il volume è disponibile anche all’indirizzo internet

[125] Inail, Dati Inail, n. 10, ottobre 2008, p. 37, disponibile anche on-line all’indirizzo internet (ultimo accesso 14/10/2008).

[126] Cfr. Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2007, cit., pp. 10-13.

[127] Si tratta di un’applicazione pratica della teoria del “sistema mondo” proposta alla fine degli anni Novanta da Douglas Massey; secondo cui in sostanza le nazioni da cui è maggiore l’emigrazione verso un dato paese sono quelle in cui si riscontra una più significativa presenza di capitali di quel paese; in merito cfr. Massey, D., Worlds in motion, Oxford University Press, Oxford 1998.

[128] Ricci, A., “Flussi di lavoratori e di investimenti tra Romania e Italia. Le nuove opportunità dell’allargamento ad Est”, in Randazzo, F. (a cura di), La Romania verso l’Unione Europea. Storia politica, economia e opinione pubblica, Periferia, Cosenza 2003, pp. 261-283; Gambino, F. – Sacchetto D. (a cura di), Un arcipelago produttivo. Migranti e imprenditori tra Italia e Romania, Carocci, Roma 2007..

[129] Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2008, cit., p. 5; Inail, cit., p. 38.

[130] Cfr. rispettivamente Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 e D.P.R. n. 54 del 18 gennaio 2002 e successivi aggiornamenti.

[131] Cfr. Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e Ministero della Solidarietà Sociale n. 2 del 28 dicembre 2006; per l’estensione di tale regime a tutto il 2008, cfr. Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e Ministero della Solidarietà Sociale n. 1 del 4 gennaio 2008.

[132] Cfr. Horvat, V., Brain Drain. Threat to Successful Transition in South-East Europe?, in “Southeast European Politics”, Vol. V, n. 1, 2004, pp. 76-93.

[133] Intervista con un medico romeno operante in Italia da noi condotta nel mese di luglio 2008.

[134] Cfr. Brandi, M. C., “Le immigrazioni romene ad alta qualificazione in Italia”, in Pittau, F. – Ricci, A. – Silj, A. (a cura di), op. cit., pp. 202-208

[135] Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2008, op. cit., pp. 15-16.

[136] Tali polemiche e link alle pagine on-line dei quotidiani che se ne sono occupati sono disponibili all’indirizzo internet (ultimo accesso 19 novembre 2008).

[137] Cfr. (ultimo accesso 19 novembre 2008).

[138] Cfr. (ultimo accesso 19 novembre 2008).

[139] Ibidem.

[140] Sympatia i niechęć do innych narodów. Centrum Badania Opinii Społecznej CBOS, Warszawa 2007.

[141] M. Rasiej, Ognisko Polskie w Turynie,. Piecdziesciat lat historii. La Comunità polacca di Torino, Cinquant’anni di storia, Graf. Art,. Torino 1995, p. 26

[142] F. Pittau, A. Ricci, Dinamiche ed evoluzoni dell’immigrazione polacca in Italia. in: K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, p. 184 – 201.

[143] K. Kowalska-Angelelli, Polscy imigranci we Włoszech. Trendy migracyjne, rynek pracy i system zabezpieczenia społecznego przed i po 1 maja 2004. Working Paper No 17/75, Centre of Migration Research, University of Warsaw, 2007 e F. Pittau, A. Ricci, op. cit.

[144] Kaczmarczyk P., Migracje zarobkowe Polakow w dobie przemian, wydawnictwo Uniwersytetu Warszawskiego, Warszawa 2005, p.111.

[145] Stola.D., Migracje przymusowe w historii Europy Srodkowej (XIX-XXw.), seria”Migracje i Spoleczenstwo 1”, Instytut Historii PAN, Warszawa, 1995.

[146]Kaczmarczyk P., Migracje zarobkowe Polakow w dobie przemian, wydawnictwo Uniwersytetu Warszawskiego, Warszawa 2005, p.114.

[147] Ibidem, p.113.

[148] Dziennik ustaw nr 36, 1959, s. 459. (Gazzeta ufficiale)

[149] Stola D., Miedzynarodowa mobilnosc zarobkowa w PRL, in Jazwinska E. Okolski M.(red.), Ludzie na hustawce. Migracje miedzy peryferiami Polski i zachodu., Scholar, Warszawa, 2001.

[150] Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.

[151] Iglicka – Okolska K. Analiza zachowan migracyjnych na podstawie wynikow badania etnosondazowego migracji zagranicznych w wybranych regionach Polski w latach 1975-1997, „Monografie i opracowania 438, SGH, Warszawa, 1998.

[152] Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.

[153] Okólski M., Statystyka imigracji w Polsce. Warunki poprawności, ocena stanu obecnego, propozycje nowych rozwiązań , Prace Migracyjne nr 2, ISS UW, Warszawa 1997

[154] Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.

[155] Stime citate anche nelle pubblicazioni ufficiali del governo, per es. sito .pl e sul sito ufficiale del Senato.

[156] Bisogna annotare che le statistiche polacche riguardanti le migrazioni sono molto imprecise. La mancanza degli strumenti adeguati per misurare le migrazioni porta alla distorsione dei dati rispetto alla realtà. (vedi Okólski M. Statystyka imigracji w Polsce. Warunki poprawności, ocena stanu obecnego, propozycje nowych rozwiązań [Immigration statistics in Poland. Conditions for credibility, the review of the subject, the proposals for the new solutions]. Warsaw: Center of Migration Research, Warsaw University).

[157] Sakson A. Migracje w XX wieku, in M.Salomon, J.Strzelczyk (a cura di.), Wędrówka i etniogeneza w starożytności i w średniowieczu, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków, 2004 s: 441-456

[158] Raport w sprawie polityki migracyjnej państwa, IPiSS UW, 2002, .pl/teksty/raport.doc.

[159] A. Kicinger, Between Polish interests and the EU influence - Polish migration policy development 1989-2004,CEFMR Working Paper, 9/2005, Varsavia:

[160] Il verbale della 33. seduta della Commissione per l’Emigrazione del 12 dicembre 2006, il sito ufficiale del senato:

[161] Monitor Polski z 1997 r. Nr 16 poz. 147 – Gazzetta Ufficiale)

[162] La legge sul rimpatrio è stata una sconfitta delle amministrazioni polacche – dal 2001 fino ad oggi la legge è stata usufruita solo da circa 400 persone – i comuni, che, secondo la legge, dovrebbero essere i promotori del rimpatrio, non sono interessate all’invito dei Polacchi dall’Est perché la legge non li incentiva abbastanza

[163] Comunicato del ministro degli Esteri del giorno 17 ottobre 2002 contenente l’elenco delle rappresentanze polacche dipendenti dal/soggette al Ministero degli Esteri.

[164] Verbale della risposta del segretario di stato nel Ministero degli Esteri all’interpellanza nro 4498 in merito dello stato dell’arte e delle prospettive della collaborazione con i Polacchi all’estero.

[165] “Il Programma del governo per la cooperazione con i Polacchi all’estero.” (Rządowy Program Współpracy Z Polonią i Polakami za Granicą), Ministero degli Esteri, Ministero degli Esteri.arasavia, ottobre 2007, scaricabile dal sito ufficiale del Ministero degli Esteri,

[166] E. Ostergaard – Nielsen, op. cit. s. 6

[167] Vedi il paragrafo 3.4 sulle associazioni.

[168] CBOS, Stowarzyszeniowo- obywatelski kapital spoleczny, Komunikat z badan, Warszawa, wrzesien 2008.

[169] Informazioni sulle associazioni a Roma sono state raccolte dal sito romamultietnica.it promosso dall’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma

[170] Sito ufficiale dell’Unione delle Associazioni polacche in Italia

[171] Sito ufficiale della Comissione Elettorale Statale (Panstwowa Komisja Wyborcza)

[172] Che sembra molto probabile dato che, come annotato nella parte precedente del rapporto, in Polonia il livello d’associazionismo è molto basso.

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